Annotazioni per incentivare percorsi di resilienza e di consapevolezza
di
Bianca Bertetti
(Università Cattolica di Brescia)
per la serie di interventi “Miti che odiano le donne“
Per cercare di capire, almeno in parte, perché tante donne, nell’età moderna e contemporanea, accettino miti a loro sfavorevoli, e anzi li sostengano, cercheremo di incrociare una serie di indicazioni che attengono all’ambito psicologico, alle indagini giornalistiche, alla letteratura e alla filmografia sui modelli femminili nella società occidentale contemporanea e sul rapporto madre–figlia. Metteremo a confronto i fattori che maggiormente ingabbiano le donne e quelli che invece le sostengono nel percorso di superamento e trasformazione di modelli squalificanti.
Se consideriamo le immagini femminili ricorrenti sui mass media vediamo che sono tra loro molto discordanti, come pure differenti possono essere le rappresentazioni che evocano. Troviamo la “velina”, avvenente corpo senza voce, la “perfetta casalinga” che, con vestiti e atteggiamenti “bon ton”, elargisce ricette e cura i figli, la donna manager che assume i tratti maschili deteriori di competitività e spietatezza, la “donna acrobata” che cerca faticosamente di conciliare il suo essere madre, compagna seducente e donna che assume importanti responsabilità lavorative. Per orientarci tra questi modelli e aiutare le nostre adolescenti a non perdere la bussola procederemo per gradi.
Resilienza versus vulnerabilità
Vediamo, come primo passo, che possiamo intraprendere due vie opposte: quella della speranza di superare e trasformare con resilienza miti e stereotipi che sviliscono la donna o quella della di-sperazione, che continua a renderci vulnerabili e incapaci di opporci agli ancora fortissimi dictat maschili, che vorrebbero la donna moglie, madre e amante, sempre sottomessa.
Nel prendere la via della speranza siamo sorretti dai recenti studi sulla resilienza, intesa come capacità di superare difficoltà e traumi anche elevati, perché mettono in grande risalto come l’interagire di una serie di fattori di protezione (familiari, individuali, sociali, culturali e valoriali) può portare a trasformare in positivo i blocchi stratificati nelle nostre storie, quindi anche le rappresentazioni femminili svilenti (Cyrunik e Malaguti, 2005; Bertetti e Castelli, 2014; Walsh, 2008). In quest’ottica si evidenzia che la via della vulnerabilità è, al contrario, co-determinata da fattori di rischio, che attengono sempre alle stesse categorie.
La via della resilienza è simile ad un cammino da percorrere con atteggiamento flessibile e aperto alle possibilità di cambiamento, in cui inevitabili passi indietro e momenti di scoraggiamento si incrociano con progressi e soddisfazioni.
Tre “pilastri” sostengono la resilienza: la buona stima di sé, che fa ritenere di essere in grado di affrontare le difficoltà con sufficiente sicurezza; il senso di appartenenza ad un gruppo familiare, sociale o culturale, che aiuta a non sentirsi soli e isolati di fronte a compiti difficili; la sensazione di essere capaci di portare a termine con efficacia i nostri progetti. Tra i fattori individuali che permettono di promuovere costruttivi percorsi di sviluppo sono poi fondamentali le risorse emotive, prima delle quali la consapevolezza di essere stati inevitabilmente condizionati, in positivo e in negativo, dai modelli che la nostra famiglia e la società in cui viviamo ci hanno trasmesso e che sono tanto più potenti quanto meno vengono esplicitati. Fanno parte della nostra squadra di risorse anche l’intelligenza e la curiosità che aiutano a cambiare il punto di vista, a trovare modalità nuove per trasformare stereotipi incatenanti, l’hardiness, la coraggiosa capacità di impegnarsi e di accettare le sfide con determinazione e… una buona dose di umorismo, che porta ad alleggerire le nostre fatiche nei momenti di ricarica, in cui si ride insieme agli altri.
Queste indicazioni sulla resilienza ci accompagneranno nel cercare di dipanare i miti e le storie cui faremo riferimento nei paragrafi che seguono. I miti e le storie presentano molte sfaccettature, e anche il modello che può sembrare più negativo serba alcune caratteristiche positive e viceversa. Nell’accostarci a questa interessante complessità cercheremo pertanto, per ogni modello, di mettere a confronto caratteristiche problematiche con altre favorevoli ad uno sviluppo armonico della personalità, evidenziando un profilo di rischio e un profilo di resilienza.
L’eco di antichi modelli mutuati dal mondo greco
Cerchiamo ora, quale secondo gradino, di individuare le caratteristiche di resilienza e quelle invece di rischio in alcuni modelli femminili provenienti dall’antica cultura greca, la cui potente influenza permane tuttora (Bolen, 1991). Nessuna di noi si riconoscerà univocamente nelle risorse e nei limiti di una sola dea perché la natura umana è complessa e multiforme, tuttavia individuare la dea o le dee prevalenti in ognuna di noi potrà aggiungere nuova consapevolezza nel percorso mai terminato di conoscenza di sé.
Bolen ragruppa le dee in tre categorie: le dee vergini, le dee vulnerabili e una dea alchemica.
Le dee vergini: Artemide, Atena e Estia rappresentano le qualità femminili dell’indipendenza e dell’autosufficienza. Sono le dee che più facilmente possono combattere contro i miti negativi.
Le dee vulnerabili: Era, Demetra e Persefone esemplificano la grande ricchezza che nasce dal rapporto, ma si lasciano sopraffare dai miti maschili che le vogliono inferiori e dipendenti.
La dea alchemica, Afrodite, è la dea dell’amore e della bellezza. Nel mito non è mai vittima né lo diventa.
Le dee vergini
Artemide/Diana è l’indipendente dea della caccia e della luna, che sceglie di rimanere eternamente casta.
Come ogni dea presenta aspetti molteplici, a volte contraddittori, ben impersonando la varietà di “personaggi interni” che albergano in ognuno di noi. Come dea della caccia è indipendente e determinata e tesa alla meta, ma può essere distruttiva verso chi le si oppone. Come dea della luna porta la luce e, come dea della natura selvaggia, protegge i piccoli.
E’ la dea che può maggiormente contare sull’essenziale fattore di protezione di una famiglia che la ama e sostiene. E’ figlia di Zeus, che le concede il privilegio di fare personalmente le sue scelte, e di Leto, dea della natura. E’ sorella gemella di Apollo, dio del sole. La donna Artemide presenta importanti qualità di resilienza individuale, tanto che Bolen l’individua come il modello ideale del femminismo che si oppone alle prevaricazioni del potere maschile:
– è sicura di sé e indipendente
– la stima di sé dipende dalle sue qualità e dai buoni risultati delle sue azioni e non dall’approvazione degli altri
– è determinata, combattiva, capace di impegno
– è una sorella leale e solidale verso le donne (le sue ninfe)
– considera gli uomini suoi pari, non si fa dominare
E’ dunque la dea che più è in grado di superare difficoltà e di contrastare modelli e stereotipi sfavorevoli alle donne. Tuttavia anche nella donna Artemide sono presenti fattori di rischio, legati proprio alla caratteristica di non farsi coinvolgere, nel bene e nel male, nelle relazioni:
– è spietata con chi offende lei o i suoi protetti
– manca di intimità emotiva , è evitante nelle relazioni, disprezza la vulnerabilità e la passività
– spinge eccessivamente i figli ad essere grandi e indipendenti come lei.
Atena/Minerva è la dea guerriera, della sapienza razionale e dei mestieri, figlia del padre, nata già adulta, votata alla castità.
Sa dominare l’istinto e la volontà con l’intelletto, ma è “tutta di testa”, non sa incrociare la mente con il cuore, come avviene nella saggezza. Presiede la strategia della lotta, in tempo di guerra e di pace, sostenendo attivamente eroi quali Achille e Ulisse, ma mai appoggiando le donne.
La sua storia familiare inizia con l’efferata violenza del padre Zeus sulla madre Metis che, quando rimase incinta di Atena, venne inghiottita dallo stesso Zeus, nel timore di essere spodestato dai figli di lei. Atena non conobbe mai la madre e venne alla luce già adulta, direttamente dalla testa del padre. Non le fu concesso godere del caldo affetto della madre, come succede a troppi figlie e figli che, non potendo contare sulla comprensiva attenzione di madri sofferenti, deboli e maltrattate, diventano grandi anzitempo.
Avendo come unico riferimento affettivo il padre, Atena trova nella sua forza un modello di identificazione e accetta il suo strapotere patriarcale, lei pur così sapiente.
La donna Atena gode di importanti qualità di resilienza:
– è intelligente e strategica,
– è combattiva e indipendente
– eccelle nello studio e nel lavoro
– sa controllare razionalmente le emozioni
– crea forti alleanze, ma soltanto con gli “eroi” maschi
Atena dimostra come il saper pensare e mantenere il sangue freddo in momenti emotivamente incandescenti siano tratti femminili, non mutuati da quelli maschili, come invece riteneva lo stesso Jung. Anche nella donna Atena, come in Artemide, i fattori di rischio si incentrano sulla distanza emotiva nelle relazioni:
– sostiene gli pseudo valori maschili di patriarcato, competitività, talento senza scrupoli e li fa propri, rappresentando, nell’attualità, la donna manager o politica egocentrica che schiaccia i collaboratori
– è tutta di testa, non in contatto con sentimenti e parti infantili di sé e degli altri
– è evitante e non empatica nelle relazioni
– svaluta i figli emotivi, che non sono “bravi soldati”.
Estia/Vesta è la dea del focolare e del tempio, zia saggia e nubile.
Estia è la dea del focolare rotondo presente, nell’antichità, in ogni casa e in ogni città e ancora oggi, metaforicamente, in ogni famiglia o comunità fondata sulla coesione e la concordia. La sua potenza non si manifesta in gesta clamorose, ma alimenta ideali di pace, di continuità e di appartenenza familiari e sociali.
Estia è la prima figlia del tirannico Crono che, come implacabile tempo, inghiotte le sue creature, e di Rea, debole e impotente, che non si oppose alle violenze dello sposo finché non nacque l’ultimogenito Zeus, che spodestò Crono, dopo avergli fatto rigurgitare i fratelli, gli dei dell’Olimpo, tra i quali Estia.
Estia, priva di modelli familiari positivi di identificazione, cerca e trova all’interno del proprio sé la fonte di calore e di luce che le permette di costruire la sua personalità e la irradia alle persone che le sono vicine, come hanno fatto e fanno i saggi di tutte le civiltà e religioni.
Le qualità di resilienza della donna Estia attengono alla intelligenza emotiva, in cui la consapevolezza di sé e dei propri sentimenti sono alla base di relazioni autenticamente improntate ad accettazione senza giudizio e calda empatia (Goleman, 1996 e 2006). Estia è:
– saggia, capace di focalizzarsi sul mondo interno, i valori
– sa creare un ambiente caldo e ascoltare con empatia
– sa mantenersi al di là dei conflitti di potere
– si occupa dei figli con attenzione tenera e accogliente
Tali risorse sono fondamentali per trovare serenità interiore e armonia sociale, ma sono per lo più trascurate e svilite da società troppo competitive, interessate al guadagno di beni esteriori e fondate sull’apparenza. In questa cornice emergono allora fattori di rischio che inducono Estia a non agire nel mondo per combattere disvalori e miti sfavorevoli alle donne come altrettanto all’umanità. La donna Estia
– ha difficoltà ad affrontare il mondo esterno
– fa un passo indietro in situazioni di conflitto e competitive
– si lascia svalutare e non sviluppa ambizioni personali
– non aiuta i figli ad essere combattivi.
Le dee vulnerabili
Era/Giunone è la dea del matrimonio, moglie fedele di Zeus.
E’ la potente dea che sovrintende il naturale bisogno umano di condividere la vita con un con-sorte. Sa offrire affetto e fedeltà, supportare il partner e mediare tra le proprie esigenze e quelle dell’altro. Nel passato la dea era però denigrata perché considerata litigiosa, collerica col partner e vendicativa verso le rivali. Nell’attualità il suo modello di fedeltà ad un marito potente ma dispotico è percepito da molte donne, soprattutto giovani, come negativo, ma per altre ragioni. Le donne, in seguito ai movimenti femministi degli anni ’70 del Novecento, non cercano il raggiungimento di una completezza personale e di uno status sociale unicamente attraverso il rapporto col partner. Cercano piuttosto, seguendo il modello Demetra o Atena, la realizzazione personale attraverso lo studio, il lavoro e la carriera. La ricerca poi di un “amore romantico”, le forti attese di un rapporto felice, non le porta a accettare matrimoni di convenienza.
La storia familiare di Era può aiutare a dare spiegazione della sua duplice natura. Anche lei era figlia del tirannico Crono e di Rea e, quando venne rigurgitata già fanciulla dal padre, fu allevata da due divinità della natura, che funsero da genitori adottivi. Conobbe il dolore della violenza e dell’abbandono, che possono far comprendere la sua grande collera reattiva ogni volta che veniva abbandonata (De Zulueta, 1993). Poté però godere dell’affetto dei genitori adottivi, fare una importante esperienza riparativa e diventare capace di impegnarsi a fondo nel rapporto con l’altro.
Le qualità di resilienza della donna Era, come già di Estia, rientrano nella sfera dell’intelligenza emotiva. Era è:
– capace di impegnarsi a fondo nel rapporto
– sa essere fedele
– può ricominciare daccapo di fronte agli insuccessi
I fattori di rischio che la caratterizzano sembrano collegati ad una troppo bassa stima di sé – fattore invece essenziale per una trasformazione resiliente delle difficoltà – e la portano a subire i miti negativi imposti dal patriarcato:
– idealizza il matrimonio come mezzo di realizzazione personale e di riconoscimento sociale
– si lascia umiliare fino ad accettare un rapporto vittima-carnefice nel timore di rimanere sola
– non riesce a rivolgere la collera verso il partner che la umilia e tradisce: la rivolge verso se stessa, deprimendosi, o la sposta sulle rivali
– troppo concentrata nel rapporto col partner, trascura i bisogni dei figli, verso i quali diventa distante ed evitante.
Demetra/Cerere, dea delle messi, nutrice e madre.
Demetra è l’archetipo della madre che sa offrire ai suoi “figli” nutrimento fisico, psicologico o spirituale e creare per loro un
“contenitore” accogliente. La sua completezza e stima di sé derivano dal sapersi sintonizzare con gli altri e prendersi cura di loro con generosità, pazienza, dedizione. Fino a un paio di generazioni fa era il modello per le donne che intraprendevano lavori tipicamente femminili come l’insegnante, la psicologa, l’assistente sociale o la pediatra. Lo è meno attualmente per le giovani donne che si impegnano in professioni di aiuto, forse perché ritengono che la gravidanza e il rapporto stabile con un partner siano una completamento della loro personalità, non unicamente il fulcro attraverso il quale costruiscono la propria identità. E’ significativo comunque che, anche nelle giovani donne come già in Demetra, il richiamo all’essere madri sia molto più potente di quello di essere mogli. Non a caso molte di loro si sposano dopo che hanno avuto il primo figlio. Le importanti qualità creative di nutrice e madre presenti in Demetra sono strettamente collegate alla sua parentela con l’antenata Gea, la Madre Natura, la Grande Madre il cui potere è stato soppiantato dagli dei patriarcali dell’Olimpo e delle altre religioni. La donna Demetra si collega al suo ancestrale potere generativo, nutritivo quando:
– si prende cura degli altri e offre contenimento emotivo
– è perseverante, paziente, generosa
– fa sbocciare negli altri le potenzialità e le capacità
– lotta strenuamente per i figli quando sono in difficoltà
– sa chiedere aiuto per risolvere i problemi
I fattori di rischio di Demetra trovano invece radici nell’essere figlia del tirannico Crono e della fragile Rea e in sovrappiù, nell’essere quarta consorte di Zeus, gravemente trascurante verso la comune figlia Persefone. Demetra cresce Persefone da sola. Quando poi Persefone viene rapita da Ade Demetra si dispera, la cerca inutilmente. Quando viene a conoscenza che il suo violento rapimento era stato approvato da Zeus si chiude in una sofferta collera, si deprime, paralizza le sue grandi potenzialità creative, ma attira così l’attenzione di Zeus, che infine invia Ermes a riportare Persefone alla luce e alla madre, senza intervenire di persona.
La chiusura depressiva cui Era ricorre le toglie le forze per combattere più attivamente contro lo strapotere maschile. Come lei, le donne la cui componente Demetra è marcata faticano a superare con resilienza i miti sfavorevoli. I fattori di rischio emergono quando:
– persegue un ideale onnipotente di madre perfetta
– cade in una cupa, astiosa e distruttiva depressione
– crea relazioni fusionali, ansiose e ambivalenti con i figli: li tiene sotto stretto controllo, li mantiene dipendenti.
Persefone/Proserpina o Cora, eterna adolescente e regina degli inferi, figlia della madre.
Anche Persefone vive nei rapporti: con la madre per due terzi dell’anno, a partire dalla primavera, e per un terzo negli inferi col marito Ade, quando la terra è in riposo. Nella sua duplice collocazione rappresenta due modelli diversi. In quanto figlia della madre è simbolo della primavera come lo sono le adolescenti e, come loro, è flessibile, vitale, pronta ad una nuova crescita ma, a differenza di tante ragazze moderne, è compiacente e remissiva con la madre. Lo è anche con uomini più anziani da cui si fa dominare, aderendo al modello esasperato del patriarcato dove gioventù, inesperienza e debolezza cercano sicurezza in maturità, potenza e dominio. In quanto prigioniera di Ade rischia, più di tutte le dee, di cadere in profonda depressione, senza riuscire a esprimere aggressività verso i suoi dominatori e i miti opprimenti.
Persefone è, di contro, anche un potente modello di resilienza perché ha saputo trasformare il suo traumatico rapimento in occasione per scendere nel profondo di se stessa, come nel profondo dell’Ade. Grazie al contatto con le parti più sofferenti e buie di sé è diventata capace di guidare, come Regina degli inferi, gli altri nel loro percorso doloroso di conoscenza di sé.
La duplicità del suo essere è ben collegabile alla sua vicenda familiare. Persefone è figlia di Demetra, sollecita e attenta, e di Zeus, lontano emotivamente, incurante di lei. La madre è tutto per lei. In questa cornice Persefone rimane l’eterna fanciulla che, non aiutata dal padre, fatica a separarsi emotivamente dalla madre.
Mentre è prigioniera di Ade, Persefone accetta volontariamente di mangiare i semi del melograno offerti da Ade, che la legheranno per un periodo dell’anno a rimanere nel buio della terra e nelle profondità dell’inconscio, ma di assumere anche il ruolo di Regina degli Inferi e di diventare “altro” dalla madre.
Le caratteristiche di resilienza di Persefone, come pure quelle di rischio, riflettono la duplicità del suo modello. Al positivo, nel suo lato luminoso, la donna Persefone:
– come fanciulla è riflessiva, empatica, ricettiva, dolce
– come Regina degli Inferi sa fare luce nelle profondità del suo mondo interno e fare da guida agli altri nel loro percorso di consapevolezza
– sa accettare come una fase i momenti di depressione e riesce a trasformali con creativa resilienza
Al negativo, nei suoi aspetti bui, la donna Persefone:
– come figlia della madre è passiva, dipendente, insicura
– come prigioniera di Ade assume su di sé le colpe, si deprime, non esprime aggressività per i suoi carcerieri
– accetta il ruolo di donna bambina con gli uomini, fino a diventare vittima
– come eterna adolescente, debole e fragile, chiede impropriamente ai figli di proteggerla.
La dea alchemica, della trasformazione
Afrodite/Venere, dea dell’amore, della bellezza e della creatività, rappresenta l’affascinante complessità dell’amore che, attraverso l’unione sessuale e sentimentale tra una donna e un uomo, porta a una nuova vita. Rappresenta la possibilità di fare dialogare armonicamente la mente, il cuore e lo spirito per dar luogo ad una nuova crescita personale. Rappresenta il potere di trasformare con creatività ostacoli e difficoltà per trovare nuovi e più soddisfacenti percorsi di vita. La sua forza creativa nasce dalla capacità di coinvolgersi in modo intenso e appassionato in una relazione come in un nuovo progetto, teso all’espressione della bellezza. L’Afrodite amante passa, come la dea nel mito, da un rapporto all’altro restando libera di scegliere e mai vittima, così come l’Afrodite forza creativa si impegna con passione in un nuovo progetto quando il primo giunge al termine. Come le dee vergini è libera di scegliere, indipendente e tesa alla meta e, come le dee vulnerabili, attribuisce grande valore all’esperienza emotiva con gli altri ma, a differenza di queste ultime, non si impegna a lungo termine, vivendo con intensa sensualità il rapporto presente.
La prepotente forza della sensualità, sessualità e bellezza che l’archetipo di Afrodite evoca trova ragione nel primo dei due miti della sua nascita in cui, secondo Esiodo, la dea sorge improvvisamente dalle acque profonde dell’inconscio, fecondate dallo sperma del progenitore Urano. La capacità di fare crescere la sessualità all’interno di un rapporto “romantico” è più vicino alla versione di Omero, che ritiene Afrodite figlia di un rapporto, quello tra Zeus e la ninfa del mare Dione. La capacità artistica di unire bellezza e tecnica può infine essere collegabile all’unione tra Afrodite e Efesto, lo storpio dio del fuoco e delle arti.
Le qualità di resilienza che permettono alla donna Afrodite di non diventare vittima di miti sfavorevoli sono potenti, in quanto la dea:
– rappresenta la grande forza di trasformazione dell’amore
– è creativa
– è estroversa, sensuale e capace di empatia
– apprezza e ispira bellezza
– nel mito non è né diventa vittima.
La libertà di scegliere e il coinvolgersi appassionatamente di Afrodite da un rapporto ad un altro, da un progetto all’altro, come pure la sua bellezza hanno suscitato e suscitano tuttora reazioni contrastanti negli uomini e nelle donne.
Gli uomini, i troppi ancora oggi ingabbiati nei potenti miti patriarcali tipici delle culture giudeo-cristiane e musulmane, si fanno ancora pervicacemente promotori del mito della donna sensuale, eternamente bella, giovane, “oca senz’anima”, sempre inferiore a loro, da potere sfruttare e soggiogare a loro piacimento.
Le donne vedono in Afrodite un difficile e affascinante modello da raggiungere o, al contrario, una pericolosa rivale.
Dopo anni di lotte femministe per raggiungere la dignità di essere giudicate autentiche e capaci, molte donne, soprattutto giovani, sono attratte da un modello di bellezza femminile che stravolge l’archetipo Afrodite perché costruito, falso, ma considerato come l’unico vincente in una società dove l’apparire conta più dell’essere. Al proposito Lorella Zanardo (Zanardo et al. 2009) denuncia con grande efficacia quanto siamo bombardati da modelli femminili svilenti, commentando le immagini di una serie di donne – corpi senza pensieri e senza parola – che compaiono all’ora di cena in televisione. Immagini dove i volti perdono la loro espressività naturale perché contraffatti dalla chirurgia estetica, dove i corpi sono gonfiati a dismisura per fare risaltare riferimenti sessuali appetibili per i maschi, che le donne sono spronate a imitare per raggiungere una bellezza finta, irreale.
L’intesa reazione di attrazione/repulsone che il mito di Afrodite suscita costituisce il suo tallone di Achille nel fronteggiare miti sfavorevoli. Nella donna Afrodite si attivano fattori di rischio quando
– ha una attenzione intensa ma volubile verso gli altri
– ispira diffidenza nelle donne, che la giudicano rivale
– cade nelle “trappole” maschiliste accettando di proporsi principalmente come un oggetto sessuale
– seduce i figli, ma non offre sufficiente stabilità emotiva.
Donne coraggiose nell’età moderna
In questa cornice, dove abbiamo incrociato indicazioni provenienti dagli studi sulla resilienza con quelle che ci suggeriscono i miti, analizziamo, come terzo gradino, le storie di due donne coraggiose dell’età moderna che, come le Cattive ragazze di un fumetto che definisce provocatoriamente tali 15 donne controcorrente (Petricelli e Riccardi, 2013), hanno saputo trasformare con resilienza condizioni a loro sfavorevoli e sono per noi esempi di come essere inventrici di noi stesse.
Maria Montessori
Maria Montessori (1870-1952), come Artemide e Atena andò coraggiosamente contro i pregiudizi che legavano le donne ad una posizione subalterna nell’ambito dello studio e del lavoro, fino a diventare tra le prime dottoresse italiane in medicina e a ideare il metodo pedagogico che porta il suo nome. Di contro, le leggi e i costumi del suo tempo le impedirono per molti, lunghissimi anni, di crescere il figlio Mario (Bernardini, Salvatici, 2014; Tavarelli, 2007). Maria si iscrisse nel 1889 alla Facoltà di Medicina, inizialmente contro la volontà paterna ma col pieno sostegno della madre, che rimarrà per tutta la vita il suo fondamentale punto di riferimento affettivo. Nel corso degli studi conobbe un giovane e aristocratico professore di Psichiatria, Ferruccio Montesano, e lo aiutò per anni a fondare la clinica specialistica per bambini cosiddetti deficitari che avevano sognato. Gli fu anche compagna negli affetti ma, quando scoprì di essere incinta, si trovò nel più totale isolamento: Montesano, i genitori di lei, la società dei primi del novecento, tutti le furono contro. Montesano, per non offuscare il suo prestigio professionale e sociale, non la sposò. La famiglia la invitò a non palesare la sua maternità, nemmeno al figlio, come suggerivano le usanze dell’epoca. Per non creare scandalo, Maria affidò il piccolo Mario ad una famiglia, andando sempre a trovarlo con regolare e sollecita attenzione e, come Demetra, lottò tutta la vita per ricongiungersi a lui. La società con i suoi miti, pregiudizi e le leggi patriarcali fece da sfondo, potente e indiscusso, nel porre ostacoli che una donna, da sola, non era assolutamente in grado di superare. Per legge le ragazze madri non potevano riconoscere i figli, non erano nulla per la società, non erano ammesse al lavoro.
Maria si dedicò con passione al lavoro scientifico e superò l’iniziale reazione depressiva per l’allontanamento dal figlio con creativa resilienza fino a costruire un metodo didattico rivoluzionario per i bambini orfani, lei che era stata costretta ad accettare che suo figlio fosse orfano di fronte alla società.
Maria non fu solo una grande pedagogista riconosciuta nel mondo, fu anche una pioniera dei diritti delle donne in Italia. Sosteneva esplicitamente la necessità che la voce delle donne fosse ascoltata, tanto che, ormai famosa, poté dichiarare che Mario era suo figlio e continuare contemporaneamente il suo lavoro di pedagogista.
Per comprendere ancor più a fondo quanto forti fossero i miti contrari alle donne alla sua epoca, va tenuto conto che Maria Montessori pubblicò il suo primo libro, Il metodo Montessori, nel 1909 mentre solo nel 1905 Freud aveva dato alle stampe I tre saggi sulla sessualità, che tanto fecero scalpore e furono osteggiati da una società scientifica che guardava con sospetto le teorie del padre della psicoanalisi su inconscio, impulsi sessuali repressi e conseguenti sintomi psichiatrici. Va inoltre evidenziato che lo stesso Freud, anche lui figlio del suo tempo, considerava le donne inferiori e invidiose degli uomini, in quanto sprovviste dell’organo virile (invidia del pene). Pure Jung, che non considerava le donne “menomate” come Freud, riteneva ancora che le stesse potessero essere soltanto coadiuvanti degli uomini perché studio e lavoro non corrispondevano alla loro natura, più emotiva che razionale.
Franca Viola
La storia di Franca Viola è diversa, come è diverso il periodo storico. Franca è nata nel 1947 ad Alcamo, in Sicilia ed è tuttora vivente (Petriccelli, Riccardi, 2013). All’epoca un uomo poteva stuprare una donna e cancellare il reato con un matrimonio riparatore. Se la vittima acconsentiva a sposarlo, lo stupratore evitava la denuncia e il processo. Tutte le donne stuprate accettavano il matrimonio riparatore perché una donna non più vergine difficilmente avrebbe trovato marito. Ma Franca a 17 anni disse di no al suo stupratore, Filippo Melodia, che apparteneva ad una famiglia mafiosa. Per Filippo era un’umiliazione insopportabile: la rapì e la violentò. Mandò un emissario dal padre di Franca per fare accettare le nozze riparatrici. Il padre e la madre di Franca, d’accordo con la polizia, finsero di accettare ma, il giorno successivo, il 2 gennaio 1966, la polizia fece irruzione nell’abitazione di Filippo, liberò Franca e arrestò Melodia e i suoi complici. Per la prima volta in Italia una donna portava davanti alla giustizia
l’uomo che l’aveva violentata. I genitori furono i suoi principali “tutori di resilienza”, perché la sostennero sempre, in tutte le fasi del faticoso processo che si concluse con la condanna di Melodia e dei suoi complici. Ma non così reagì la comunità di siciliana nel corso del lungo iter giudiziario. Il podere della famiglia fu dato alle fiamme, il padre minacciato di morte, le donne, al passaggio di Franca, le urlavano “Svergognata, vuoi rovinare i nostri figli”, il prete dal pulpito aggiungeva “le donne devono essere umili e ubbidienti” (Petricelli e Riccardi, 2013, p. 75) . Il caso suscitò anche forti polemiche nella società italiana, ma il presidente della repubblica di allora, Giuseppe Saragat, come pure papa Paolo VI, le manifestarono tutta la loro solidarietà e stima e sostennero la sua resilienza.
Malgrado questi forti e espliciti riconoscimenti, soltanto negli anni ottanta, dopo le battaglie femministe, la legge italiana abrogò gli articoli 544 e 587 del codice penale che ammettevano la possibilità di estinguere il reato di violenza carnale, anche ai danni di una minorenne, con un matrimonio riparatore e considerò la violenza sessuale un reato contro la persona e non più contro la morale.
La trasmissione dei modelli svilenti
La storia di Franca Viola ci permette di introdurre un quarto gradino di analisi: quello del rapporto delle figlie con i genitori e, in primis, con la madre che, come abbiamo visto, ha continuato nei secoli, e in parte continua tuttora, a trasmettere miti svilenti.
Madre e figlia: una relazione speciale
La madre è il primo oggetto d’amore per i bambini di entrambi i sessi, ma esistono specificità particolari nel rapporto con la figlia (Lion Julin, 2008; Poncet- Bonissol, 2014, Winnicott, 1987). La madre ha una affinità speciale con la femmina, perché condivide con lei l’identità sessuale. Si immagina che provi emozioni e desideri simili ai suoi e inconsapevolmente le trasmette di comportarsi come i suoi genitori le hanno insegnato oppure di portare a compimento quello che lei non è riuscita ad ottenere nella vita, in termine di successo nello studio, lavoro, felicità familiare. Tende ad intervenire molto e a lasciarle poca libertà.
Non così avviene nel rapporto col figlio maschio. La differenza di genere porta la madre ad accordargli più fiducia, più spazio, a tollerare di più le sue ribellioni. La cultura la induce a spingerlo verso l’autonomia, a separarsi da lei e dalla famiglia, a muoversi nel mondo.
La madre fatica a tollerare, in adolescenza, quella sana e indispensabile contrapposizione che permette alla figlia una buona separazione e la contemporanea costruzione di una personalità sua propria (processo di separazione-individuazione). Fatica altresì a riconoscerle la necessità di mantenere “il giardino segreto” della sfera dei suoi affetti e della sua intimità.
Anche la figlia, da parte sua, ha più difficoltà del maschio a separarsi dalla madre perché, sempre a causa della appartenenza di genere, fin da piccolissima la considera il suo modello. Quando poi in adolescenza le si contrappone per definire la sua identità, fatica in questo processo perché teme di perdere il suo amore.
Il ruolo del padre
In questo complesso rapporto il ruolo del padre è fondamentale nell’accompagnare madre e figlia nel loro percorso di progressiva separazione. Il padre, proponendo i suoi legittimi bisogni, aiuta la madre a non focalizzarsi esclusivamente sulle esigenze della piccola. Aiuta la figlia a comprendere che il suo affetto, in quanto “primo uomo” della sua vita è diverso da quello della madre. La capacità del padre di creare uno spazio tra madre e figlia diventa ancora più importante in adolescenza, quando il padre sostiene la madre a non scoraggiarsi di fronte alle provocazioni della figlia e sostiene la figlia ad affermare posizioni diverse da quelle della madre perché sicura dell’affetto che lui le manifesta. Il padre offre inoltre alla figlia modelli diversi da quelli della madre relativamente a come ci si muove e relaziona nel mondo, modelli che la figlia può fare propri per avventurarsi con più competenze verso l’autonomia.
Rapporti che liberano e rapporti che ingabbiano
Con questa premessa, analizziamo, come quinto gradino, alcune tipologie del rapporto madre-figlia, tenendo anche conto della loro specifica relazione di attaccamento – l’interazione che si stabilisce precocemente tra madre e bambino – (Bowlby, 1972; Attili, 2012) per individuare i fattori di resilienza e i fattori che invece rischiano di mantenere le figlie intrappolate nei modelli svilenti da cui tante madri non hanno potuto prendere le distanze. Si tratta di tipologie che non rispecchiano appieno, né in positivo né in negativo, la complessa, multiforme e sempre in evoluzione qualità di un rapporto, ma ci possono fare riflettere e diventare consapevoli degli stili prevalenti in noi e nelle nostre madri per poterli trasformare.
La madre “sufficientemente buona” offre, insieme al padre e alla famiglia allargata, una relazione attendibile e stabile in cui la figlia trova ascolto profondo, comprensione empatica e risposte adeguate ai suoi bisogni, contenimento affettuoso ad emozioni di rabbia, confusione e paura, rispetto, in adolescenza, della sua sfera privata. Parliamo di attaccamento “sufficientemente” sicuro, proprio perché una assoluta sicurezza non ci appartiene, anzi impoverirebbe la ricchezza dei nostri umani rapporti. Grazie a questo “porto sicuro” la figlia viene aiutata a costruire i tre “pilastri” della resilienza: autostima, senso di appartenenza e consapevolezza di essere efficace nelle sue azioni. Viene sostenuta a sviluppare le sue risorse cognitive, emotive e sociali nella cornice di valori saldi ma non rigidi della famiglia.
Ma anche se certamente non siamo e non abbiamo avuto una madre così e troveremo tante caratteristiche “difettose” nelle pagine che seguono … non perdiamo la speranza!
Soprattutto le madri grandiose e distanti e quelle deboli e disorganizzate ostacolano il superamento di stereotipi svilenti nelle figlie. Lo intralciano anche le madri possessive e ansiose, ma analizzeremo alcune loro caratteristiche quando faremo riferimento alle madri contemporanee.
Le madri grandiose sono alla ricerca continua di riconoscimenti narcisistici da parte degli altri, compresa la figlia. Pur affermando di amare la figlia, la denigrano per i suoi difetti, che testimoniano la sua non perfetta riuscita come madre. Sono tendenzialmente fredde, distanti, poco sensibili ai segnali e alle richieste della figlia, cercano di spingerla ad una precoce autonomia, anche quando l’età non lo consente. In un tragico circolo vizioso ripropongono una relazione anaffettiva e umiliante analoga a quella che hanno sperimentato con le proprie madri (attaccamento insicuro evitante).
Le figlie delle madri grandiose restano nell’alveo imprigionante del giudizio materno e non sviluppano la necessaria autostima. Alcune rimangono sullo sfondo, faticano a mostrare apertamente aggressività, a diventare se stesse e inseguono la speranza di essere apprezzate da una madre sempre sfuggente. Altre, più forti, sviluppano un Falso Sé (Winnicott, 1987; Miller, 2008) dove occultano le parti più fragili sotto una corazza di una falsa sicurezza. Rimangono comunque intrappolate in una relazione schiavo-padrone come è magistralmente descritto nel film Sinfonia d’autunno (Bergman, 1978), dove la protagonista, in un momento di tragica verità, dice alla madre: “Tu sei una che sfugge, una che non ascolta mai, sei emotivamente paralizzata e non te ne accorgi perché vivi senza freno soltanto di te stessa… Le ferite della madre le soffre la figlia, l’infelicità della madre si trasmette alla figlia. È come se il cordone ombelicale non si fosse mai spezzato”.
La categoria più a rischio è costituita dalle madri deboli, passivo/aggressive e dipendenti, che possono instaurare con le figlie alternativamente relazioni evitanti o ansiose, fino ad arrivare al limite di proporre attaccamenti disorientati e disorganizzati. Sono madri ferite a loro volta da relazioni gravemente problematiche coi loro genitori. Madri che, più di tutte le altre, trasmettono un modello di indiscussa dipendenza dai miti patriarcali più marcati anche, paradossalmente, quando vi si contrappongono.
Le madri deboli e passivo/aggressive si aspettano dalla figlia dedizione e valorizzazione, come hanno cercato di fare loro stesse con madri umiliate e impotenti. Inconsapevolmente non tollerano che la figlia, attraverso la ricerca della propria autonomia, le confronti col fallimento della propria, con le loro debolezze, insicurezze, irrefrenabile timore della solitudine.
Le figlie delle madri deboli e fragili riproducono le loro profonde insicurezze e si colpevolizzano per non riuscire mai ad essere all’altezza delle richieste materne. In alcuni casi assumono un falso Sé in cui, invertendo i ruoli, si caricano dell’onere impossibile di diventare loro le madri della propria madre. In altri si ribellano con tutte le forze, ma la loro personalità non si struttura adeguatamente. Ostentano una sicurezza solo fittizia e si muovono nelle relazioni e nel mondo in modo disordinato e disorganizzato, ora aggredendo, ora ponendosi in una posizione di subalternità, riproponendo lo schema schiavo/padrone che tanto combattono, come ben esprime il film Lady bird lady bird (Loach, 1994) dove la figlia di una donna succube di un marito che la maltratta, a sua volta non riesce a sottrarsi al fascino di uomini violenti e propone una relazione affettuosa ma fortemente disorganizzata ai suoi figli.
Dalla famiglia patriarcale alla famiglia degli affetti
Come sesto gradino, ci chiediamo cosa stia succedendo ora alle “figlie dei fiori” e alle adolescenti che si affacciano alla vita adulta. Sono disorientate o sostenute da una cultura che ha dimenticato l’Edipo ma esaltato il narcisismo?
La storia di Merida, giovane principessa del film Ribelle (Andrews M., Chapman P., 2012), permette di accostarci a questo complesso tema, perché ben esemplifica il cambiamento di prospettiva riguardo ai tradizionali ruoli femminili. Ben rimarca il passaggio dalla famiglia patriarcale ad una famiglia più aperta, dove si articola diversamente il ruolo del padre, che già dall’infanzia della figlia dismette le vesti del padre autoritario, dove la ragazza riesce, pur con errori e dolore, a prefigurarsi uno status diverso da quello di figlia obbediente agli stereotipi sociali, dove la madre impara faticosamente a lasciare che la figlia costruisca in libertà il suo destino.
L’adolescente Merida, dai ricci e rossi capelli, rifiuta di seguire la tradizione di sposarsi “per ragioni di stato”, osteggiata inizialmente dalla madre, che poi comprende le sue ragioni, e sostenuta dal padre che, fin da piccola, l’incoraggia a osare, come una Artemide determinata e una Atena strategica.
A partire dagli anni 70 del 900 e grazie anche alle importanti lotte del movimento femminista (Bernardini e Guerra, 2015; Marrazzi, 2007), si è assistito al passaggio dalla famiglia patriarcale ad una nuova famiglia affettiva (Pietropolli Charmet, Riva, 1994; Pietropolli Charmet, 2014), dove i ruoli di padri, madri e figli sono rapidamente mutati. Nella famiglia patriarcale le direttive erano date dal padre che attribuiva alla madre il compito di allevare i figli. I bambini erano considerati portatori di impulsi eccessivi, da “regolare” affinché diventassero obbedienti e compiacenti – soprattutto le femmine – alle aspettative familiari, culturali e sociali.
La rigida suddivisione gerarchica tra i ruoli è stata sostituita da un nuovo equilibrio, ancora fluido, caratterizzato da maggiore libertà e pariteticità nella relazione di coppia, dove i nuovi genitori si propongono di fornire sicurezza e protezione ai figli e sono attenti ad ascoltare e spronare i figli “preziosi” a sviluppare i loro talenti. Cercano il più possibile di rendere i figli “felici” e di difenderli da un esterno percepito come pericoloso e minaccioso. Nell’ansia di vedere i propri figli primeggiare cercano, come dei “genitori spazzaneve”, di spianare loro ogni difficoltà. Ostacolano in tal modo la loro necessaria aspirazione a separarsi da un contesto persino troppo accogliente e non li attrezzano a sviluppare quella autostima, fonte di resilienza, che si costruisce solo affrontando problemi, fatiche e insuccessi.
I ruoli genitoriali sono cambiati e stanno ancora cambiando, vediamoli.
Padri contemporanei
Tra i padri contemporanei che hanno per lo più abdicato al ruolo di pater familias autoritario e coercitivo, prevale il padre “materno”, ma non manca tuttavia il padre assente.
Il padre “materno” ha scoperto la bellezza degli affetti e di una relazione precoce coi figli, è molto coinvolto, come è ben descritto nel romanzo “Rosa Candida” (Olasfsdottir, 2012), dove il giovane protagonista, inizialmente spaventato di assumere la responsabilità della figlia nata da una relazione passeggera, “fugge” in un monastero lontano a fare il giardiniere. Lì farà attecchire i germogli di rosa candida ereditati dalla madre. Lì, grazie alla sensibilità che la madre gli ha trasmesso per la natura e per i fiori, scoprirà la gioia di lasciarsi conquistare dall’affetto per la piccola figlia, che nel frattempo l’ha raggiunto insieme alla madre.
Il padre materno ha imparato a coccolare i “cuccioli”, ma ha spesso rinunciato alla strutturante funzione di proporre un modello autorevole e solido, di trasmettere valori e principi etici. Si propone al figlio più come un amico che come un padre, lo protegge da una madre e da professori tropo severi, gli concede troppo.
Il padre assente è un padre troppo assorto in un lavoro impegnativo per occuparsi dei figli e lascia che la madre sia il referente educativo e normativo. Non aiuta il figlio a prendere le necessarie distanze dalla madre e quando, in situazioni di difficoltà, è richiamato pressantemente dai comportamenti trasgressivi del figlio, non sa dare confini e regole strutturanti o ricorre agli atteggiamenti autoritari che pensava di avere ormai abbandonato.
Madri complici
Anche il modello di madre contemporanea è cambiato ma vediamo che, in una cultura occidentale dove predomina il narcisismo, permane prepotente il mito impossibile della madre perfetta, che si articola in due immagini opposte e antitetiche: le “madri acrobate”, che cercano di conciliare doveri e interessi, e le madri casalinghe “ipernaturali”, che allattano i bambini per anni, usano solo pannolini di cotone , ecc. e tendono a creare un mondo chiuso, da cui il padre viene espulso perché rompe il “cerchio magico” mamma/bambino. (Lipperini, 2013; Poncet Bonissol, 2014; Rosci, 2007).
In entrambi i modelli prevalgono le madri complici, non più autoritarie, ma che, a loro volta, mantengono le figlie all’interno del loro alveo di controllo (attaccamento ansioso-ambivalente).
Le madri acrobate sono quelle che incontriamo più frequentemente. Si trovano in bilico tra il passato e un futuro tutto da costruire. Cercano, non senza fatica, di armonizzare lavoro, affetti e cura dei figli. Assumono la funzione di polo centrale della famiglia, ma a volte spingono troppo le figlie a raggiungere mete di “perfezione” nel campo della scuola, dello sport, della vita sociale e, pericolosamente, in quello sentimentale. Cercano un rapporto di complicità che ostacola l’indipendenza rendendosi sempre disponibili, condividendo gli interessi e lo stile di abbigliamento, subissando le figlie di messaggi sui cellulari. Si appiattiscono così al modello dell’eterna adolescente, che non permette loro di accogliere la nuova età della vita, né alle figlie di differenziarsi. In questo quadro le madri acrobate non cercano il necessario e spesso indispensabile supporto dei padri che, nei blog, chiamano “soci”.
Il film Thirteen (Hardwicke, 2003) ben esemplifica le fatiche di una madre acrobata, sola e troppo complice, quando la figlia, tipica brava bambina prima della classe, a 13 anni diventa “suddita” di una avvenente compagna che la trascina in esperienze di sesso, droga, autolesionismo. La madre riuscirà ad aiutare la figlia, fortemente disorientata, solo quando capirà di dover riprendere il suo ruolo di madre affettuosa ma capace di contenimento e lascerà quello di amica adolescente, cercando anche l’intervento del padre.
Quali rischi per le nuove adolescenti?
Può succedere che le figlie di madri complici e di padri pericolosamente assenti dalla scena educativa non riescano a stare al passo delle troppo elevate e narcisistiche aspettative familiari e si chiudano in un paralizzante bozzolo di vergogna, interrompendo il loro percorso verso l’autonomia.
Può succedere altresì che le ragazze, così come le figlie delle altre madri di cui abbiamo delineato in precedenza le tipologie, nel tentativo di non essere fragili e sottomesse rischino di “perdersi” di fronte ai prepotenti modelli di “vuota bellezza” e di competitivo egocentrismo che la società occidentale contemporanea propone.
Alcune di esse si possono lasciare affascinare dal pericoloso modello della “velina muta” pur di trovare una scorciatoia per diventare qualcuno agli occhi del mondo. Possono aderire alle sollecitazioni di una cultura dove il corpo della donna è pesantemente svilito, enfatizzato come oggetto sessuale, utilizzato per vendere prodotti sempre nuovi e più sensazionali attraverso strategie di marketing che ci bombardano i continuazione, su tutti i mezzi di comunicazione (Zanardo, 2009).
Altre rischiano di essere attratte dal modello delle “donne pantere” che hanno fatto propri gli atteggiamenti spregiudicati, altamente competitivi, impietosi che i colleghi maschi spesso utilizzano nel lavoro e nella politica, come si evidenzia nel film Il diavolo veste Prada (Frankel, 2006), dove la protagonista non esita a umiliare le sue aiutanti, a pretendere da loro prestazioni che le schiavizzano e non permettono loro di pensare con la loro testa.
Altre ancora possono inseguire entrambi i modelli, incuranti di perdere valore e dignità. Alcune di esse, come riporta Lorella Zanardo (2009) a proposito di una protagonista de “Il grande fratello”, arrivano a descriversi così: “Piaccio al pubblico maschile per le mie forme, ma al pubblico femminile per le mie palle… Oggi sono io, col mio corpo, il prodotto, un prodotto che vendo nel mercato dello show business”.
Appunti per superare con resilienza i miti sfavorevoli
“O ci sottomettiamo alla nostra storia, o ce ne liberiamo utilizzandola”
Boris Cyrulnik
Ritornando alla questione iniziale relativa a come cercare di superare e trasformare i miti sfavorevoli, tentiamo di sintetizzare le indicazioni su cui abbiamo man mano riflettuto, rimandando ad un futuro studio riflessioni più approfondite.
Abbiamo visto l’utilità di richiamarsi e fare giostrare insieme i diversi fattori di protezione che gli studi sulla resilienza individuano: sociali, familiari, individuali, valoriali.
Tra i fattori familiari, ribadiamo l’importanza, da parte delle madri contemporanee, di accettare di non essere perfette e di non escludere il padre; da parte del padre, di non sottrarsi al ruolo di modello autorevole e normativo, nonché a quello di “terzo”, che favorisce il sano processo di separazione madri-figlie. Tra i fattori sociali evidenziamo la necessità di condividere, confrontare, discutere tra uomini e donne i diversi punti di vista relativi a modelli, antichi e recenti, in cui la donna è svilita o, invece, è riconosciuta nel suo valore, come fa, per esempio, Lorella Zanardo che porta nelle scuole il suo documentario su “Il corpo delle donne” (Zanardo, 2009). Tra i valori, l’urgenza di diffondere sempre più una cultura attenta ai bisogni delle donne, capace di smascherare modelli consumistici umilianti. Tra le risorse personali sottolineiamo la necessità di fare fiorire sempre più, come un giardiniere, la consapevolezza profonda, foriera di cambiamenti, dei modelli che ci sostengono e di quelli che più ci frenano (Thich Nath Han, 2013; Kabat Zinn, 2005; Bertetti, 2011, 2014), rimanendo sempre convinti che la perfezione non è di questo mondo e che senz’altro… è meglio così.
BIBLIOGRAFIA
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Bianca Bertetti, psicologa e psicoterapeuta, insegna Psicologia del ciclo di vita presso l’Università Cattolica di Brescia. Si occupa da anni della cura resiliente del trauma in persone che hanno subito maltrattamenti e abusi. È Consulente tecnico di ufficio presso il Tribunale Ordinario di Milano e membro dell’Unità di ricerca sulla resilienza dell’Università Cattolica di Milano. È formatrice e insegnante di yoga e pratiche di mindfulness.