https://doi.org/10.55154/KMQG3041
Come citare
MARANGONI Rossella, ” ‘Onna tenka’ e ‘Dorei’: se in scena comandano le donne. Un contrappunto teatrale in Giappone fra Meiji (1868-1912) e Taishō (1912-1926)”, AsiaTeatro – rivista di studi online, anno 2024, n.1, pp. 37-60.
https://doi.org/10.55154/KMQG3041
Abstract. Nel Giappone dei primi anni del XX secolo si accende il dibattito sulla Nuova Donna (atarashii onna). Due opere teatrali che vedono la luce in questo periodo costituiscono un interessante contrappunto sulla percezione della donna moderna nella cultura di massa. “Onna tenka” (1907) e “Dorei” (1914) ‒ la prima scritta da un uomo, la seconda da una donna ‒ rappresentano due visioni della coppia contrapposte ma complementari, appartengono a generi diversi (commedia l’una, dramma l’altra) e esprimono due modi differenti di intendere il teatro nel Giappone dell’epoca: quello dello shinpa e quello dello shingeki.
Onna tenka e Dorei: se in scena comandano le donne. Un contrappunto teatrale in Giappone fra Meiji (1868-1912) e Taishō (1912-1926)
di Rossella Marangoni
Nel Giappone dei primi anni del XX secolo il dibattito sulla Nuova Donna (atarashii onna 新しい女) aveva iniziato ad infiammare gli animi.
Ma già con la Restaurazione Meiji (1868) e l’accelerata modernizzazione in ogni campo richiesta per affrontare alla pari il confronto con le potenze europee la società giapponese tutta, donne comprese, aveva subito un’inesorabile trasformazione.
Con il periodo Meiji, il Movimento per la libertà e i diritti del popolo (Jiyū minken undō), principale gruppo di opposizione al governo, costituitosi attorno al 1874, chiedeva per tutti i cittadini nuovi diritti e nuove libertà. Le donne che vi aderirono denunciavano le restrizioni imposte a tutte dalla struttura familiare tradizionale e chiedevano un cambio di passo che il governo Meiji era restio a concedere, pur convinto che fosse importante migliorare lo status femminile per far accettare il Giappone nel consesso delle nazioni moderne. Ma il ruolo subalterno delle donne, quell’ideale di buona moglie e madre saggia (ryōsai kenbo 良妻賢母) che si era andato imponendo e che relegava l’attività della donna all’interno della casa, era uno dei fondamenti dello stato: rinunciarvi era impossibile. Alle richieste di riforma il governo Meiji rispose emanando leggi volte a impedire alle donne di prendere parte a qualsiasi attività politica (unirsi a partiti politici, partecipare a riunioni politiche o persino seguire corsi di scienze politiche) mentre il Codice Civile del 1898 conferiva al capofamiglia l’assoluta autorità sui membri della famiglia e assimilava le donne ai minori.
Ciò nonostante, la modernizzazione e l’ingresso di correnti di pensiero europee avevano portato in Giappone anche le istanze dei movimenti femminili e se nell’arcipelago il suffragismo ha meno presa che in Gran Bretagna, pure le richieste delle donne di autonomia e indipendenza economica sono sufficienti a creare ansietà. Le donne, all’inizio del XX secolo, in Giappone, sono quindi al centro delle tensioni sociali e culturali. La loro insofferenza, nella percezione delle autorità e dell’opinione pubblica benpensante, mina la stabilità della famiglia, nucleo di quello Stato-famiglia (kazoku kokka 家族国家[1]) che è il fondamento della società. Eppure, che lo si auspicasse o meno, con l’istruzione superiore estesa alle fanciulle, l’inevitabile ingresso delle donne nel mondo del lavoro in ambito urbano (nel mondo rurale le donne avevano sempre lavorato a fianco degli uomini nei campi e nelle risaie), l’arrivo di nuove idee di emancipazione e lo sviluppo del movimento per i diritti dei cittadini, il ruolo della donna all’interno della società giapponese stava già mutando.
È una nuova donna, quella che avanza, che cerca di abbattere i vecchi modi di pensare e i costumi tradizionali per vedere migliorata la sua condizione, per liberarsi dalla subordinazione che il modello di femminilità forgiato per lei e a lei imposto, quello di buona moglie e madre saggia, comportava.
Se i rapporti fra i generi sanciti dalla tradizione erano ora minacciati da queste nuove donne, questo pericolo incombente si riverberava nei prodotti della cultura di massa in una sorta di pratica di esorcismo che aveva lo scopo di scongiurare la catastrofe che l’uomo giapponese vedeva profilarsi all’orizzonte.
Due testi teatrali che vedono la luce in questo periodo mi sembrano creare un interessante contrappunto attorno al tema della donna che comanda. Onna tenka 女天下(1907) e Dorei 奴隷 (1914)‒ la prima scritta da un uomo, la seconda da una donna ‒ sono opere che rappresentano due visioni della coppia contrapposte ma complementari, appartengono a generi diversi (commedia l’una, dramma l’altra) e esprimono due modi differenti di intendere il teatro nel Giappone dei primi anni del XX secolo: quello dello shinpa 新派 il primo, quello dello shingeki 新劇 il secondo. Per queste ragioni entrambi questi testi possono, a mio avviso, costituire un interessante punto di partenza per una riflessione sulla percezione della donna moderna nel Giappone dell’epoca.
Tarōkaja
Il ribaltamento parodico è da sempre un mezzo ideale per denunciare una minaccia temuta facendo appello al comico.
Lo sapeva bene Masuda Tarō 増田太郎 (1875-1953), uomo d’affari con studi presso l’Università del Commercio di Anversa che, appassionatosi alle scene europee, rientrato in Giappone e dopo aver svolto attività imprenditoriale per un certo periodo, si era dedicato al teatro iniziando a scrivere commedie satiriche. Allo scopo aveva assunto lo pseudonimo di Tarōkaja 太郎かじゃ mutuandolo da un personaggio molto amato del kyōgen 狂言, il servitore buffo e pasticcione Tarō Kaja, sorta di Arlecchino scaltro e pigro, vero e proprio trickster del teatro giapponese. I lunghi soggiorni in Europa (Gran Bretagna e Belgio) avevano esercitato senz’altro una grande influenza nella formazione della passione teatrale di Masuda, orientandolo verso il teatro leggero, il vaudeville, l’operetta e il musical e trasformando il compassato uomo d’affari in un personaggio chiave di quella che sarà conosciuta come opera Asakusa 浅草オペラ. A partire dal 1904 Masuda, ormai Tarōkaja, si dedica totalmente al teatro sotto molteplici vesti: autore di commedie satiriche, impresario e direttore di teatro, persino compositore di canzoni popolari come la celebre Korokke no uta コロッケの歌 (Canzone della crocchetta, 1917), che iniziava così: “Sono felice d’essermi sposato ma la sola cosa che lei mi prepara sono quelle korokke…”.[2] Secondo lo studioso delle scene giapponesi Nakano Masaaki le commedie e i musical scritti da Tarōkaja anche dopo essere diventato uno dei direttori esecutivi del Teikoku Gekijō 帝国劇場 (Teatro Imperiale) erano sofisticati e si rivolgevano al pubblico della classe media, a differenza delle commedie proposte dai fratelli Soganoya[3] la cui comicità era rivolta a un pubblico per lo più composto da cittadini della classe operaia: “Le commedie di Masuda erano molto più moderne, interpretate e cantate da attrici istruite all’Accademia Teatrale Imperiale, modellate sulle operette europee e sul repertorio del music hall”.[4]
Non tutti i critici concordano con questo giudizio ma è indubbio che all’inizio dell’era Taishō, Tarōkaja era il più importante autore di teatro comico in Giappone, anche se forse non il migliore, ed è evidente che le sue opere contribuirono a stabilire la commedia quale parte integrante del teatro giapponese del ventesimo secolo.[5]
È risaputo che Tarōkaja avesse idee molto personali sul concetto di comico,[6] ancora strettamente legate alla tradizione farsesca della vittimizzazione di manchevolezze fisiche o morali. Queste sue concezioni erano accompagnate da un evidente gusto per la parodia e lo sberleffo che lo portò, evento inedito in Giappone, a ideare una riscrittura comica dell’Otello shakespeariano, trasformandolo in una commedia umoristica capace di rendere familiare al grande pubblico il mondo di Shakespeare, un autore fino ad allora presentato come intoccabile, un genio a cui si doveva massimo rispetto, icona dell’Europa modernizzata e per questo espurgato, in Giappone, delle scurrilità e del wit propri del teatro elisabettiano. Il Nuovo Otello,[7] presentato da Tarōkaja nel 1907 come il contraltare comico dell’Otello adattato per il pubblico giapponese da Emi Suiin 江見水蔭 (1869-1934) e prodotto nel 1903 da Kawakami Otojirō 川上 音二郎 (1864-1911) che tanto successo aveva riscosso al botteghino, mostra l’abilità del suo autore nel creare nuovi generi di intrattenimento intercettando i gusti del pubblico e lo spirito dei tempi.

L’Onna tenka di Tarōkaja, parodia di uno scenario temuto
Ed è proprio seguendo questo spirito del tempo che Tarōkaja, in quello stesso 1907, compone la pièce Onna tenka ossia Il regno delle donne, commedia in un atto e 3 scene incentrata sulla quotidianità di tre coppie in cui è la moglie a tiranneggiare il marito. Il debutto avviene nel giugno di quell’anno, nella storica sala dello Shintomiza[8] a Tōkyō. A metterla in scena è la compagnia di Ii Yōhō 伊井蓉峰 (1871-1932), attore di shinpa, capocomico e regista di spettacoli preoccupato particolarmente della questione del realismo e intenzionato a dar risalto ai testi seguendo l’esempio del teatro europeo. Aveva fatto epoca la sua messinscena, nel 1902, di alcuni drammi di Chikamatsu Monzaemon 近松門左衛門 (1653-1724) in cui aveva imposto ai suoi attori l’abbandono della declamazione tradizionale propria del jōruri per privilegiare un approccio più naturalistico alla recitazione.
Una ripresa di Onna tenka si avrà dal 1° al 25 novembre del 1913 presso il Teikoku Gekijō (Teatro Imperiale)[9], e poi ancora dal 16 al 31 luglio 1920. Se risulta difficoltoso ricostruire il cartellone delle rappresentazioni del 1907, sappiamo però che sia nel 1913 che nel 1920 il ruolo femminile principale, quello della moglie del bancario Haruki, Momoyo, era sostenuto da Mori Ritsuko 森律子(1890-1961), una delle attrici più amate dell’epoca.
Mori si era diplomata brillantemente alla Scuola Superiore Femminile Atomi (Atomi jogakkō), ma aveva deciso di diventare una joyū, un’attrice professionista. Fu una delle prime apprendiste della scuola che la celebre Kawakami Sadayakko 川上 貞奴(1871-1946) aveva fondato a Tōkyō il 15 settembre 1908, il Teikoku Joyū Yōseijo (Centro Imperiale di formazione per attrici), la prima scuola del genere nella storia del teatro giapponese e che, come fa osservare Carmen Covito nel suo studio su Sadayakko,[10] costituiva una novità assoluta in un ambito, quello delle arti tradizionali, nel quale la trasmissione degli insegnamenti era sempre avvenuta rigorosamente secondo il sistema degli iemoto 家元.[11]
A causa di questa scelta di carriera, coraggiosa per l’epoca, il nome Mori Ritsuko fu cancellato dal registro delle ex studentesse della Atomi jogakkō e il fratello minore si suicidò per la vergogna di avere un’attrice per sorella.[12] Per contro, il padre, un rinomato avvocato e uomo politico, organizzò una grande festa per celebrare il debutto teatrale della figlia. Ritsuko iniziò così una brillante carriera arrivando a diventare una stella acclamata del Teatro Imperiale, a dispetto dei pesanti pregiudizi contro le attrici che ancora erano diffusi all’epoca. Che Mori fosse molto ammirata lo dimostra il fatto che già nel 1923 l’educatrice e missionaria Charlotte Burgis DeForest (1879-1973) la sceglieva, per la sezione Fields Where Women Have Succeeded del suo libro sulle donne giapponesi, come esempio di donna che eccelleva nel campo delle arti della scena e poteva scrivere: “Forse l’attrice vivente più popolare in Giappone è la signorina Ritsuko Mori, il primo esempio di rilievo di una donna istruita che sale sul palcoscenico. Nacque nel 1890 e, dopo essersi diplomata alla Atomi Girls’ School e poi alla prima classe della Actresses’ Training School annessa al Teatro Imperiale di Tokyo, allargò ulteriormente i suoi orizzonti andando all’estero nel 1912 e studiando il teatro occidentale. Ora è una delle attrici direttrici del Teatro Imperiale”.[13]


È indubbio che essere un’attrice significava presentarsi come una atarashii onna, una “nuova donna”, oggetto di scandalo di per sé. Mori, con il suo innato talento per il registro comico, rappresentò l’interprete ideale per il personaggio di donna moderna al centro della pièce di Tarōkaja. Con l’autore, del resto, costituì un sodalizio artistico destinato a deliziare il pubblico del Teatro Imperiale della capitale per lungo tempo.
Il 2 novembre 1913 fu pubblicata a Tōkyō, per i tipi di Zuansha shuppanbu, una seconda edizione riveduta dell’opera, probabilmente affinché gli spettatori potessero acquistarla e leggerla. Il frontespizio mostra un uomo che si inchina così profondamente da toccare terra con la fronte. Sopra il disegno si legge in inglese: “Her Royal Highness Woman”, mentre sotto compare il titolo giapponese Onna tenka 女天下. Inserita all’inizio del libretto è anche una fotografia della prima attrice, Mori Ritsuko, ritratta mentre legge un quotidiano, abbigliata all’europea con un enorme fiocco sul petto e i capelli raccolti da un nastro bianco. La didascalia in lingua inglese dichiara: “Mrs Haruki by Miss Ritsuko Mori”.


Onna tenka: va in scena il dominio delle donne
Il titolo della commedia di Tarōkaja è di per sé autoesplicativo. Ma, se il termine onna 女 non necessita di ulteriori precisazioni, forse vale la pena ricordare che tenka 天下 può essere reso in italiano con “regno”, ma anche con “dominio” e, per traslato, con “potere”, come è inteso nella pièce, il cui tema è la sottomissione imposta dalle donne ai loro mariti, in un evidente ribaltamento parodico della realtà delle relazioni fra coniugi nel Giappone dell’epoca.
Sei sono i personaggi che si muovono sulla scena, tre coppie di coniugi: il pescivendolo Yagorō e la moglie O-Shō, il suo cliente e impiegato di banca Haruki Teijirō con la moglie Momoyo e infine l’autorevole Iwayama Tetsunojō, anziano di ascendenza samuraica le cui opinioni sono tenute in gran considerazione e la moglie di lui, O-Kane. Qualche battuta l’hanno anche la domestica di casa Haruki e quella di casa Iwayama.
La scena I si svolge in una casa presso una pescheria. La moglie del pescivendolo Yagorō, O-Shō, rimprovera il marito per essere tornato a casa due ore più tardi del solito e per averla fatta attendere con la cena pronta che gli aveva preparato. L’uomo si scusa con il pretesto di un incontro di lavoro, ma sua moglie non sembra intenzionata ad accettare la giustificazione mentre l’uomo alla fine si rassegna ad ammettere di avere torto.
Nella scena II, che si svolge a casa degli Haruki, Yagorō, con la scusa di andare al sentō (bagno pubblico), per il quale ha graziosamente ottenuto dalla consorte mezz’ora di tempo, si reca da un cliente, un tale Haruki Teijirō, impiegato di banca qualificato, con l’idea di chiedergli consiglio su come trattare sua moglie. Arrivato nella casa in stile occidentale degli Haruki, Yagorō è testimone involontario di una conversazione fra questi e la moglie Momoyo, 23 anni, più giovane del marito di dieci anni. La donna lo accusa di essere rientrato a casa solo alle 8 e 30 senza averla informata del ritardo come invece avrebbe dovuto, se non altro con una telefonata. Si viene a scoprire che Haruki aveva cenato in un ristorante di lusso in compagnia di geisha, e che, trattandosi a suo dire di una cena di lavoro, non avrebbe in nessun caso potuto evitare di parteciparvi. La giovane donna fa partire una filippica di rimproveri in cui, avendo frequentato il college negli Stati Uniti, mescola al giapponese invettive in lingua inglese, seppur maldestramente semplificata: “Look at your watch!” ripete. Indi, con riferimento al termine shinshi 紳士 (uomo raffinato, colto e cortese, in pratica un gentleman)citato più volte dal marito (sarebbe lui il gentiluomo): “Oh! Be done with your shinshi! A shinshi is one who loves his wife and respect her and not the slave of painted geishas!”.[14]
Frastornato dagli improperi di Momoyo il marito si rassegna ad ammettere di aver sbagliato ad agire in quel modo.
Dopo che la consorte è andata a coricarsi accusando un mal di testa, Haruki decide di far visita a Iwayama Tetsunojō, un anziano di origine samuraica reputato per la sua saggezza, allo scopo di chiedergli di far ragionare sua moglie. Yagorō, rendendosi conto che Haruki Teijirō ha i suoi stessi problemi (Otoko wa shimijimi tsurai naa. Essere uomo è davvero dura![15] afferma), invece di confidarsi con lui direttamente lo accompagna a casa di chi, credono, darà loro buoni consigli.
La scena III è ambientata quindi presso l’abitazione di Iwayama.
Tetsunojō, un uomo sui settant’anni, è per fortuna a casa da solo e, sentito il loro racconto, rimprovera i due uomini per non essersi comportati da veri giapponesi quali sono. In quanto tali, non dovrebbero tollerare alcuna angheria dalle loro mogli. In Giappone vige ancora il principio secondo cui “nei tre mondi una donna non ha casa” (onna wa sangai ni ie nashi[16]), ossia non sarà mai padrona nella sua casa e le donne devono, di conseguenza, obbedire al padre mentre sono giovani, al marito una volta sposate e al figlio una volta vecchie.[17]
Tetsunojō ha appena finito la sua lunga tirata quando rientra a casa sua moglie O-Kane (descritta come una donna di 67/68 anni con i capelli bianchi), la quale si chiede cosa mai possano volere quei due uomini da suo marito a un’ora così tarda. Una volta scoperta la raccomandazione di farsi valere che questi hanno appena ricevuto da Tetsunojō, li caccia malamente di casa prima di voltarsi e pretendere spiegazioni dal marito. Ed è su questo che cala il sipario.
I tre uomini, pur appartenendo a classi sociali diverse, ben sottolineate sulla scena sia dalla progressione delle ambientazioni, via via più altolocate, sia dalla precedenza che la domestica degli Iwayama accorda a Haruki rispetto al pescivendolo Yagorō quando i due si presentano all’ingresso della residenza degli Iwayama, alla fine risultano essere mariti dominati dalle rispettive mogli, ridotti a un balbettio sottomesso quando devono giustificare le proprie azioni, deboli, capaci solo di mugugnare e di chiamare ripetutamente la moglie danna sama, appellativo onorifico che in genere era usato dalle donne per rivolgersi rispettosamente ai mariti.
Più che lo sberleffo della realtà, in Onna tenka a suscitare il riso è il suo manifesto rovesciamento, un pericolo ipotetico messo in burla: è mai possibile che dei mariti si facciano tiranneggiare così dalle loro consorti? Si è mai visto? Potrà mai essere?
Mi sembra di poter vedere, in questo capovolgimento parodico della quotidianità che Tarōkaja mette in scena in Onna tenka, un riferimento palese a un procedimento farsesco classico riscontrabile nel kyōgen e per il quale si utilizza il termine gekokujō 下剋上 (lett. “il basso vince l’alto”).
Applicata in campo storico alle epoche Nanbokuchō 南北朝 (1336-1392) e Azuchi-Momoyama 安土桃山 (1568-1600) caratterizzate da profondi capovolgimenti sociali, l’espressione indicava il fenomeno dei guerrieri di rango inferiore che occupavano posti un tempo ricoperti da personaggi di alto lignaggio, dei vassalli che diventavano daimyō. Analizzando il procedimento della canzonatura ribelle delle classi superiori da parte di quelle inferiori, Sugiura Minpei osserva: “Nelle risate del Medioevo… i contadini e gli abitanti delle città medievali… avendo visto la struttura dell’ordine e della classe crollare a causa di conflitti interni, stavano iniziando a conoscere il proprio potere. L’umorismo del kyōgen non è altro che l’umorismo del gekokujō”.[18]
Anche in Onna tenka il capovolgimento della realtà quotidiana in cui sono gli uomini a comandare e tiranneggiare le donne le quali, relegate per lo più all’interno della casa, vivono in una condizione di totale subordinazione, è destinato a suscitare una risata liberatoria. Il procedimento del gekokujō, un ribaltamento che deve necessariamente essere di durata limitata, giusto il tempo della commedia, permette così una liberazione catartica. Usciti dal teatro tutto ritorna come prima e ci si sente sollevati dallo scampato pericolo.
Siamo ancora dalle parti della farsa. Nessuna critica sociale sembra esserci all’orizzonte. Si può cogliere solo un lungo sospiro di sollievo.
Come spiega Jessica Milner Davis che si domanda quali siano le qualità che giustificano il pubblico che ride di una vittima nel kyōgen, e che tendono a rafforzare nei loro effetti lo spirito spensierato della farsa o lo spirito critico della satira: “Nella farsa, in genere, i difetti delle sue vittime comiche sono superficiali e comuni e le loro sofferenze non sono così dure da provocare una critica implicita della società che consente i patimenti di questi personaggi. Nella satira, d’altro canto, le imperfezioni delle vittime sono più gravi e in genere provocheranno parecchia sofferenza e commenti amari da parte loro e/o di altri sì da incoraggiare il pubblico a criticare seriamente la società che li produce”.[19]
Fin dal debutto Onna tenka godrà da subito di un notevole successo ed è lecito ipotizzare che la felice vena comica del testo, con buona probabilità ben servita dal talento degli interpreti, andasse a solleticare un sentimento misogino diffuso fra il pubblico maschile mentre, al tempo stesso, mostrava a quello femminile benpensante l’aberrazione di un comportamento che doveva apparire come innaturale, minaccioso per la status quo: quello della nuova donna che pretendeva di comandare. La parodia sottolineava il pericolo per la società rappresentato dalla donna che non si lascia guidare, che non si sottomette.
Quello della commedia di Tarōkaja è un successo destinato a perdurare,[20] andando a originare altri prodotti della cultura di massa: i monologhi del rakugo, il cinema,[21] la canzone sentimentale (enka), e sarà sottolineato da una massiccia produzione di cartoline con vignette umoristiche sul tema che invaderanno il Giappone negli anni Venti, le cosiddette saikun tenka 細君天下.[22]
Uomini che si inchinano offrendo con deferenza l’ombrello alla moglie che sta uscendo con le amiche, mariti che puliscono il pavimento o pestano il riso nel mortaio cullando un neonato sulla schiena mentre la moglie legge il giornale e fuma. Chiamate anche nyōbō tenka o kākā tenka, ossia “il regno delle spose”, questo genere di cartoline satiriche, studiato da Sepp Linhart dell’Università di Vienna, che ne ha individuato circa cinquecento, mostra mogli tiranniche che regnano su mariti deboli e li obbligano a occuparsi delle faccende domestiche e della prole: un’inversione di ruoli destinata a suscitare il riso ma che molto dice di una visione generalizzata decisamente maschilista e delle ansie che le donne moderne del Giappone ingeneravano: la minaccia di una rivolta incombente.




Tamura Toshiko e il teatro
Nel 1914, quando Tamura Toshiko 田村俊子 (née Satō Toshiko 佐藤俊子, 1884-1945) dà alle stampe il suo atto unico Dorei (Schiavo) è già una scrittrice affermata che vive del suo lavoro. Allieva per un breve periodo del celebre scrittore Kōda Rohan 幸田露伴 (1867-1947) da cui si è allontanata perché stanca di guardare alla tradizione, Toshiko ha ottenuto un premio prestigioso per la sua novella Akirame あきらめ (Rassegnazione, 1910, pubblicata nel 1911) e ha ormai alle spalle una brevissima carriera di attrice. Ora, però, è molto critica nei confronti del mondo teatrale della sua epoca.
Tamura non ne apprezza né la drammaturgia né l’utilizzo delle attrici e non lo nasconde. Esprime anzi tutta la sua insoddisfazione in una serie di interventi su varie testate e in un saggio dell’aprile 1914 dal titolo Shibai wa wakaranai (Non capisco il teatro), scritto per la rivista Engei gahō, arriva ad affermare: “Il teatro di questi tempi non è per niente interessante”,[23] con riferimento a non ben specificate nuove opere teatrali, a suo avviso banali (bakabakashii) e incomprensibili. Entra inoltre con decisione nella polemica sulla permanenza della figura dell’onnagata nel teatro giapponese dell’epoca e sul ruolo delle “nuove” attrici, denunciando una tradizione a suo avviso artificiale e che non aveva più alcuna ragione d’essere. Toshiko credeva che la missione delle attrici moderne sarebbe dovuta essere quella di abbattere i modi convenzionali degli onnagata e, al tempo stesso, quella di realizzare opere teatrali nuove adatte a loro poiché l’allontanamento dalle scene le aveva private di un’eredità tradizionale e quindi spettava ora a loro creare una prassi interpretativa.[24]
Naturalmente la dura presa di posizione di Toshiko nei confronti della tradizione degli onnagata, pervasa com’è di essenzialismo, non è scevra di criticità.[25]
La frequentazione di Toshiko con il teatro era di lunga data: risaliva, infatti, alla sua infanzia. Nipote di un grossista di riso della shitamachi di Tōkyō che aveva conservato del periodo Edo la passione per il teatro, Toshiko era figlia di una giovane donna che dopo essersi separata dal padre della scrittrice quando questa aveva tre anni, si manteneva insegnando nagauta (canzoni per shamisen) e canto gidayū. Nel saggio Mukashi banashi 昔話 (Storie del passato), del 1914, racconta di come suo nonno la trascinasse a teatro sin da bambina e di come sua madre avesse una passione per gli attori del kabuki ‒ dentro e fuori dai teatri ‒ e rievoca l’atmosfera di quei giorni con queste parole: “Fin da quando ero piccola la mia casa era un luogo in cui c’erano sempre geisha, narratori di rakugo e taikomochi (intrattenitori maschi) che andavano e venivano. La casa era sempre rumorosa perché in qualsiasi giorno c’era qualcuno che cantava o persone impegnate in una qualche accesa discussione”.[26] Come osserva Tim Yamamura: “L’influenza della passione di sua madre per la performance, così come i ricordi dei molti attori che conosceva, rimasero con Tamura per tutta la sua vita e contribuirono a plasmare la sensibilità estetica riscontrabile nella sua arte”.[27]
Ma ora, spirito indipendente e scrittrice già affermata, Tamura Toshiko è per tutti un esempio di atarashii onna e questa sua adesione a un modello inedito di femminilità fa sì che i suoi personaggi incarnino, sulle pagine o sulla scena, quello che l’illustre critico e uomo di teatro Tsubouchi Shōyō 坪内逍遙 (1859-1935) considerava impossibile da realizzare: la presenza delle nuove donne nella letteratura giapponese. Ufficialmente era stato proprio Tsubouchi, nel 1910, a teorizzare per primo il concetto di “nuova donna” o almeno a diffonderlo durante un ciclo di conferenze dal titolo Kinsei geki ni mietaru atarashiki onna (La Nuova Donna nelle opere teatrali moderne),[28] solo per affermare che i Giapponesi avrebbero dovuto rivolgersi alla letteratura occidentale per trovarne degli esempi. Tsubouchi partiva infatti dall’analisi dei personaggi femminili dei drammi europei che di lì a poco sarebbero stati allestiti sui palcoscenici giapponesi: Nora in Casa di bambola (Et dukkehjem, 1879) e Hedda Gabler (1890) di Ibsen (1828-1906), Magda in Paese natale (Heimat, 1893) di Sudermann (1857-1928), sostenendo la scarsa verosimiglianza di azioni come quella di Nora e mettendo in dubbio la possibilità che fossero poste in essere dalle donne giapponesi. E concludeva chiedendosi: “Esiste davvero una cosa come la Nuova Donna?”. Mentre è proprio sulla scorta di quegli esempi teatrali che le donne moderne giapponesi a poco a poco avrebbero iniziato in quegli anni a far sentire la propria voce.
Sotto molti aspetti quel 1911 era stato un anno spartiacque per il Giappone, e in particolare per le donne. Le rappresentazioni di Casa di bambola (in giapponese Ningyō no ie), con l’attrice Matsui Sumako 松井須磨子 (1886–1919) nel ruolo della protagonista, avevano avuto un effetto dirompente, suscitando reazioni, dibattiti, prese di posizione e alterando per sempre la concezione tradizionale del ruolo della donna nella società giapponese.
In settembre era poi stata fondata Seitō 青鞜 (Calze blu),[29] la prima rivista letteraria creata e redatta esclusivamente da donne, che avrà una precisa vocazione, negli intenti del gruppo di giovani fondatrici capeggiato da Hiratsuka Raichō 平塚雷鳥 (1886–1971): “La nostra società ha per scopo di promuovere la letteratura femminile, di incoraggiare l’originalità di ogni talento e di rivelare, un giorno, dei grandi genii femminili”.
Seitō dedicherà a Nora e alle altre protagoniste femminili del teatro europeo un numero (ottobre 1911) e alcuni speciali (gennaio 1912, giugno 1912) ricchi di prese di posizione anche contraddittorie, ma sempre appassionate. Gli effetti di questi accesi dibattiti saranno poi rintracciabili nei lavori delle giovani intellettuali, sconosciute o già affermate, che graviteranno attorno alla rivista nei suoi cinque anni di esistenza (settembre 1911-febbraio 1916, per un totale di 52 numeri).[30]


L’anno in cui Onna tenka viene rappresentata per la prima volta, il 1907, è quello in cui Tamura Toshiko fa il suo debutto di attrice in una piccola produzione. Quando, l’anno successivo, è fondato il Teikoku Joyū Yōseijo, proprio come Mori Ritsuko, vi si iscrive ed è nel primo gruppo delle diplomate. Nell’ottobre del 1910, poco dopo aver vinto il concorso letterario dell’Ōsaka Asahi Shinbun 大阪朝日新聞 con Akirame, è di nuovo sul palcoscenico dove interpreta un personaggio di atarashii onna nella pièce Nami 波 (Onde), di Nakamura Kishizō 中村吉蔵 (1877-1941), utilizzando lo pseudonimo di Hanabusa Tsuyuko all’interno della troupe dello Shinshakai Gekidan (Gruppo teatrale della nuova società) dello stesso Nakamura Kishizō, che, insieme alla Bungei kyōkai (Associazione delle arti, 1906-1913) di Tsubouchi Shōyō cercava di introdurre il teatro moderno europeo in Giappone. La sua interpretazione fu ben accolta da importanti critici come Shimamura Hōgetsu 島村抱月 (1871-1918), il celebre regista che di lì a pochi mesi avrebbe messo in scena per la prima volta in Giappone Casa di bambola, ma Toshiko fu criticata per l’aspetto fisico (forse non abbastanza graziosa?) e, dopo qualche altro tentativo e una rinoplastica che avrebbe dovuto renderla più sicura di sé sul palcoscenico, decise di abbandonare la carriera di attrice per dedicarsi totalmente alla scrittura. Era e restava una donna moderna e come tale lo Yomiuri shinbun la incluse come secondo personaggio nella serie di venticinque speciali che, a partire dal maggio 1912, dedicò alle atarashii onna dell’epoca, serie inaugurata dalla poetessa, letterata e intellettuale Yosano Akiko 与謝野晶子 (1878-1942). Se, nella fotografia di prammatica che corredava l’articolo, l’illustre poetessa era presentata nelle vesti alquanto tradizionali di donna modesta e riservata, Toshiko era invece ritratta in un atteggiamento rilassato e sorridente appoggiata in modo sensuale alla sua scrivania, una posa che certo risentiva della disinvoltura acquisita sul palcoscenico, esperienza che del resto era sottolineata dai titoli che accompagnavano i testi, con ripetuti riferimenti alla sua carriera di attrice.
Ma lasciare le scene non significò per Tamura abbandonare totalmente il teatro. Fu anzi dopo l’abbandono che scrisse gli unici due lavori per il palcoscenico che le si devono: Yakimochi 焼餅 (Gelosia), pubblicato nel dicembre 1910 su Bungei kurabu e ascrivibile al genere della commedia (kigeki 喜劇) e Dorei 奴隷 (Schiavo),[31] pubblicato da Chūōkōron nel luglio 1914.

Dorei e la difficoltà dell’essere una Nuova Donna
L’atto unico Dorei rappresenta il secondo elemento nell’ideale contrappunto che individuo nel panorama teatrale fluido e complicato di epoca Taishō. La breve opera è stata vista come una risposta di Tamura Toshiko alla sua insoddisfazione per il teatro del suo tempo, con i personaggi femminili stereotipati e artificiali e il tentativo di esprimere, con voce di donna, le preoccupazioni di una donna moderna, che vive del proprio lavoro, che vuole costruirsi una vita indipendente, che vuole realizzare un modo nuovo di vivere le relazioni con gli uomini, non più subordinato ma su basi paritarie e che ne vede tutte le difficoltà.
Ambientata in un’unica serata di inizio estate, l’azione si svolge in un quartiere suburbano di Tōkyō nel 1914, all’interno della casa di una coppia di intellettuali: la scrittrice Funai Fujiko, all’apice della sua carriera, e il suo compagno Hoshizaki Shinnosuke, disoccupato, sfiduciato, in apparenza privo di energie e incapace di badare a se stesso. Sulla scena compaiono brevemente due altri personaggi: la cameriera Otomi (a volte chiamata Tomi) e la giovane Okuda Tsuyuko che, secondo una prassi consolidata dell’epoca, vive con la coppia quale allieva (shosei) della scrittrice ma che, a dispetto di un ruolo subordinato che prevede anche un aiuto nella gestione della casa, sembra più interessata a cercarsi un marito, approfittando delle conoscenze della coppia e di nuove amicizie.
Sembra una sera come tante, al secondo piano della casa, nello studio dove troneggia la scrivania di Fujiko su cui è sistemato tutto l’occorrente per scrivere. L’uomo, non ancora quarantenne, seduto in un angolo, indossa un kimono lacero, il suo aspetto, definito nervoso, è quello di un mendicante, un uomo che si lascia andare. Seduto sul tatami si abbraccia le ginocchia e ogni tanto alza la testa. Fujiko è una trentenne dal viso espressivo ma malato, non certo una bellezza, ma la cui personalità di donna moderna si evince da alcuni particolari esteriori, come il vestito e gli anelli.
La conversazione fra i due inizia con osservazioni su Tsuyuko appena uscita indossando abiti all’ultima moda occidentale per andare a incontrare un pretendente.
L’uomo poi inizia a lamentarsi del suo kimono invernale a brandelli. Vista la stagione, avrebbe ormai bisogno di un kimono sfoderato, estivo. È a questo punto che interviene Fujiko: chi altri potrà cucirglielo, questo nuovo kimono, se non lei, che in quella casa è costretta a far tutto, senza nessuno che la aiuti. Dovrà trascorrere la notte confezionandoglielo, privandosi del sonno, perché non può permettere che suo marito vada in giro per la città con un kimono sdrucito ma, oltre a ciò, deve pur scrivere, per evitare che vivano in miseria, e preparare i pasti. Shinnosuke sembra volersi prendere gioco di lei quando la sente ripetere di essere l’unica a lavorare in quella casa. Allora perché non smette? La accusa di essere patetica.
Inizia così un gioco al massacro alimentato da un rimpallo di battute senza esclusione di colpi. Fujiko: “Passo le mie giornate così immersa nella scrittura che ho a malapena il tempo di riemergere per respirare. Sono senza fiato, senza fiato. Lavoro così duramente ogni giorno, ogni giorno che persino io sono stupita di quanta energia abbia il mio corpo. E sì, sto soffrendo. Sto soffrendo così tanto che non so nemmeno più quanto. Eppure lo sopporto e lavoro”.[32] Fujiko accusa Shinnosuke di essere un ingrato: “Perché non smetti di vivere in questo modo? Tutto ciò di cui ho bisogno è una parola di compassione, un riconoscimento di ciò che sto attraversando per te, invece, tutto ciò che ottengo è ingratitudine. Bene, se non significo nulla, allora perché non smetti di vivere alle spalle di qualcuno che non significa nulla per te? Perché non inizi a lavorare tu stesso?”.[33] E Shinnosuke promette, promette, ma sembra il primo a non crederci. Invece, accusa la donna di aver trovato il tempo di una relazione con un uomo più giovane di lui. Lei allora gli rinfaccia di essere attratto da Okuda Tsuyuko che vive con loro. Si gettano addosso l’un l’altra un’idea contrapposta di amore e di coppia, allontanandosi a poco a poco.
Shinnosuke cade nel baratro dell’autocommiserazione accusando Fujiko di averne ostacolato la carriera mettendo a nudo, davanti al pubblico dei suoi lettori, la loro relazione: “a causa di ciò che hai scritto, mi vergogno come uomo. A causa tua, sono diventato una persona indecisa. Quindi non riesco a trovare in me la forza di affrontare il mondo”.[34] La accusa di trattarlo come un cane e lei ribatte che forse è lui che dovrebbe comportarsi da uomo. Se non altro, i cani non mordono la mano che li nutre e sono grati per tutta la vita.
Fujiko osserva amaramente: “Eppure tu, sebbene tu sia mantenuto da una donna, cerchi di indossare la faccia del padrone, senza fare o dire una sola volta nulla che suggerisca che hai pensato a cosa significhi per noi vivere insieme come persone”.[35]
Shinnosuke per lo più risponde a monosillabi, tranne quando esprime la sua gelosia e dichiara il suo dolore per il tradimento che non riesce a dimenticare.
Infine Fujiko gli intima di andarsene, si sente soffocare, non ne può più. Lo allontana facendogli giurare che non tornerà come invece ha fatto altre volte. Non lo vuole vedere mai più. E lui, così com’è, raccattando dalla scrivania alcuni libri, indossa il cappello e se ne va, giurando di vendicarsi.
È quasi notte. Fujiko piange. Otomi, la cameriera, la consola ma, al tempo stesso, sembra instillarle un senso di colpa: il padrone aveva un aspetto orribile, quando lui è a casa lei sembra più felice. Avrà venduto i libri che si era portato con sé? Sarà andato da sua sorella a Yokohama? Bisognerà fargli avere del denaro… Quella di Otomi sembra la voce della donna educata secondo la tradizione, secondo il modello ideale ryōsai kenbo: la voce, insomma, del “buon senso” di una donna remissiva, passiva, educata ad essere al servizio dell’uomo.
Nel frattempo rientra Tsuyuko che, al contrario, rappresenta qui la voce della donna moderna, assertiva e sicura di sé: “Che stupido! Tuo marito ha perso la testa. Tuo marito è geloso di te. Se perdi il tuo status a causa sua, non metterai tutto a repentaglio? Non capisco come lui pensi di trarre beneficio dalle sue azioni”.[36] Meglio, molto meglio per la sensei essersi liberata di lui che non fa altro che creare problemi, che complicarle la vita. Da sola la sensei le sembra più felice. Tsuyuko esprime un’opinione diametralmente opposta a quella di Otomi perché è una Nuova Donna.
Fujiko però è tormentata e preoccupata. Sento di dover in qualche modo provvedere a Shinnosuke, facendogli arrivare degli abiti, dei libri, del denaro.
Si fa notte e poi, alle prime luci dell’alba un risciò si ferma di fronte alla casa. Ne smonta Shinnosuke. Fujiko scende all’ingresso in camicia da notte. Shinnosuke è tornato ma non osa entrare senza il suo permesso. Non sa dove andare. Non ha risorse. È disperato. Sulla soglia le giura che sarà il suo schiavo. Le obbedirà e lei sarà la sua padrona. È lei ad avere il potere. Fujiko prende tempo, riflette, poi annuisce: Shinnosuke può entrare. Su questo cala il sipario.
Nessuna relazione è libera dal potere: è questa la conclusione, non scevra da amarezza, verso cui Tamura Toshiko sembra accompagnare il pubblico. Forse la sua protagonista non avrebbe voluto questa relazione sbilanciata, il suo non è il trionfo della dominatrice bensì la consapevolezza che la realtà è complessa, che nulla è facile e semplice in una relazione e che la strada da intraprendere è ancora molto lunga.
Quello di Dorei è stato definito come un finale ambiguo ma l’ambiguità risiede nella vita stessa e Tamura rende perfettamente questa sua consapevolezza. Non più silhouette di cartone come quelle di Onna tenka in cui i personaggi obbediscono a una legge deterministica, quella del loro autore, che li muove meccanicamente in una realtà priva di sfumature, i due protagonisti di Dorei sono entrambi complessi: innamorati, disamorati, gelosi, incapaci, ognuno a modo suo, di stare lontani e impossibilitati a costruire una coppia di esseri eguali. Ma la colpa della situazione a chi attribuirla? Come gestire il dissidio creato dalle aspettative della società e la necessità interiore di essere fedeli a se stessi? Shinnosuke non può smettere di comportarsi come l’uomo giapponese si è sempre comportato, da padrone, eppure è il primo a rendersi conto della propria fragilità, della propria inutilità, della propria miseria. Fujiko non può smettere di amarlo, di preoccuparsi per lui, per la casa, per il benessere di tutti, come alle donne giapponesi è stato insegnato. Anche lei fa fatica a liberarsi delle catene in cui la consuetudine ha rinchiuso le donne. Eppure lei è una donna moderna, che vive del suo lavoro, che mantiene delle persone, una casa: una realtà che Tamura Toshiko doveva ben conoscere, visto che nella pièce e nelle altre opere di questo periodo ritorna il ricordo della relazione tormentata e distruttiva con il marito Tamura Shōgyo 田村松魚 (1874–1948).[37]
Pure, questa breve opera teatrale di Tamura Toshiko sembra segnare alcuni punti fermi per la moderna donna giapponese. Non più schiava nella casa, relegata in quell’oku, il fondo della residenza a cui sembrava destinata per sempre dalla tradizione, la donna nuova di Toshiko afferma la propria indipendenza cacciando il marito, asserendo quindi di poter vivere nella casa sola, liberandosi così della tutela a cui ancora il Codice Civile di epoca Meiji l’assoggetta. Al tempo stesso Fujiko capovolge il destino di Nora: lei non se ne va, chiudendo la porta di casa dietro di sé, come fa l’eroina di Ibsen. No, è lei a restare. Vero, alla fine dell’atto concede a Shinnosuke di rientrare in casa, ma lo farà alle sue condizioni, facendolo sottomettere alle regole che lei imporrà. Non più una sottomissione da burla, come quella dei mariti angariati in Onna tenka, quella che impone Fujiko è una presa di coscienza, un richiamo alla maturità, all’assunzione di responsabilità che ogni relazione di coppia deve prevedere.
Pur coi tempi lunghi che si osservano nel mutare di una mentalità diffusa, le cose a poco a poco stavano cambiando e il teatro, vero specchio di ogni età, era lì, pronto a registrare e a restituire al suo pubblico, ancora una volta, lo spirito dell’epoca.
Bibliografia
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NOTE
[1] Il concetto di kazoku kokka è una delle basi ideologiche dello stato Meiji; postulava un monarca semidivino, padre di una grande famiglia costituita dai suoi sudditi. Il sovrano (tennō) era al contempo sommo sacerdote della stirpe del Sole, di ascendenza divina, e sovrano moderno che “presiedeva” ma non era “coinvolto” nell’effettiva amministrazione dello Stato. L’armonia organica e l’integrazione patriarcale si trovavano così a prevalere su qualsiasi nozione conflittuale del sistema politico.
[2] TAKADA Masatoshi, “Naissance et évolution de la cuisine occidentale japonisée: Meiji, Taishō et début Shōwa”, in Ebisu-Études Japonaises, n. 35, Printemps-Été 2006, p. 70.
[3] I fratelli Soganoya, i cui nomi Gorō e Jūrō evocano gli eroi popolari della vendetta dei fratelli Soga, avvenuta nel 1177 e ripresa in innumerevoli drammi teatrali, a partire dal 1903 si impegnarono nell’ideazione di un genere moderno di commedia che chiamarono shinkigeki e, se pur dapprima con alterne fortune, riuscirono nell’impresa di proporlo stabilmente guadagnando al genere un pubblico entusiasta e sempre numeroso.
[4] NAKANO Masaaki, “Interlude: modern comedies and early musicals” in SALZ Jonah (ed.), A History of Japanese Theatre, Cambridge, Cambridge University Press, 2016, p. 227.
[5] WELLS Marguerite, Japanese Humor, Basingstoke and London, Macmillan, 1997, p. 99.
[6] Cfr WELLS Marguerite, “Tarō Kaja and the Dark Woman with Hairy Legs”, in Japanese Humor, cit., pp. 96-100.
[7] OKI-SIEKIERCZAK Ayami, HSU Yi-hsin, “Humorous Othello: Tarokaja Masuda’s New Othello (1907) and the Value of Comedy”, in Tamkang Review, n. 1, vol. 50, 2019.
[8] Successore del Teatro Moritaza 森田座 di Edo, lo Shintomiza 新富座fu costruito nel 1872 (Meiji 5) da Morita Kan’ya, appartenente alla dodicesima generazione, a Shintomi-chō, quartiere Kyōbashi, Tōkyō. Andò a fuoco nel 1923 (Taishō 12).
[9] Nel 1911, il Teikoku Gekijō (Teatro Imperiale) aprì a Tōkyō come il primo teatro in stile occidentale del Giappone: era una struttura in cemento armato e acciaio, aveva poltroncine quali posti a sedere e servizi in stile europeo come ristoranti, sale fumatori e guardaroba. Nonostante il nome possa far intendere diversamente, si trattava di una struttura privata. Oltre a mettere in scena spettacoli di Kabuki, la compagnia fondò una scuola d’arte affiliata per formare attrici, invitò importanti artisti stranieri a esibirsi e mise in scena le prime nuove produzioni teatrali, contribuendo così allo sviluppo del teatro giapponese. Fu ricostruito nel 1966.
[10] COVITO Carmen, Sadayakko, la Duse del Giappone, Bologna, Clueb, 2023, pp. 275-276.
[11]La struttura iemoto-sei nelle arti tradizionali prevede che al vertice di una scuola vi sia uno iemoto, o caposcuola, il cui posto viene trasmesso per via ereditaria e in cui, quindi, l’insegnamento viene trasmesso di padre in figlio (sia naturale che adottato).
[12] Cfr. IKEUCHI Haruko, Joyū no Tanjō to Shuen: Pafōmansu to Gendā [The Birth and the End of Actress: Performance and Gender], Tōkyō, Heibonsha, 2008, pp. 24-25.
[13] DEFOREST Charlotte Burgis, The Woman and the Leaven in Japan, West Medford (Mass.), The Central Committee on the United Study of Foreign Missions, 1923, p. 143.
[14] [MASUDA] Tarōkaja, Onna tenka, Tōkyō, Zuansha shuppanbu, 1913, p. 29.
[15] Ivi, p. 67.
[16] Ivi, p. 86.
[17] Si tratta della nozione patriarcale di matrice confuciana delle Tre Dipendenze (sanju o sanshō) precedente al buddhismo e presente non solo in Cina ma anche nell’India antica. Ci si aspettava che le donne vivessero in completa sottomissione al padre durante l’infanzia, al marito dopo il matrimonio e al figlio una volta diventate vedove. Un principio che ebbe molto successo a partire dal Giappone medievale con l’arrivo dell’aristocrazia guerriera al potere.
[18] SUGIURA Minpei, Gekokujōteki no shakai no katami: kyōgen, cit. in MILNER DAVIS Jessica, Understanding Humor in Japan, Detroit, Wayne State University Press, 2006, p. 145.
[19] Ivi, p. 140.
[20] Come si può dedurre dal fatto che dopo ben più di trent’anni dal debutto la pièce venisse rappresentata nell’Indocina occupata dal Giappone: “Nel novembre 1940, la compagnia ‘Umeima Gekidan’ presentò tre spettacoli al teatro municipale di Hanoi: Zembu Seishin Ijoari (Manicomio) [sic], una commedia la cui azione si svolge in un manicomio; Yamato damashi (L’anima di Yamato) racconta la storia di un ufficiale dell’aeronautica giapponese che, nonostante le tragiche circostanze, riesce a mantenere intatti il buon nome dell’esercito giapponese e lo spirito giapponese; Onna Tenka (Donna Leonessa) [sic] raffigura la vita quotidiana, lo spirito e le usanze del popolo giapponese”. Cfr NANBA Chizuru, Français et Japonais en Indochine, 1940-1945: colonisation, propagande et rivalité culturelle, Éditions KARTHALA Editions, Paris, 2012, p. 232. La commedia era presentata così: “Onna Tenka (Femme lionne), est une comédie écrite il y a quarante ans mais qui reste toujours d’actualité”, su Indochine, hebdomadaire illustré, n° 11, 21 novembre 1940, p. 17.
[21] Un film con questo titolo, di cui purtroppo non ci è pervenuta alcuna copia, fu prodotto dalla casa Yoshizawa shōten e girato nel 1909. La prima risale al 10 gennaio 1910 al Torigoe Denkikan di Tōkyō.
[22] Saikun è un termine usato con scarso rispetto per riferirsi alla moglie di qualcuno di rango inferiore o di un proprio pari e anche un termine umile per indicare la propria moglie.
[23] Citato in YAMAMURA Tim, “Forging ‘Home’ on the Stage: Tamura Toshiko, Shingeki, and the New Woman”, in U.S.-Japan Women’s Journal, n. 28, 2005, p. 20.
[24] L’interdizione alle donne di salire sui palcoscenici risaliva al 1629. Per una disamina della posizione di Tamura Toshiko sul tema, cfr YAMAMURA Tim, op. cit., pp. 18-20.
[25] Per un approfondimento sul tema in questione rimando a KANO Ayako, Acting Like a Woman in Modern Japan: Theater, Gender and Nationalism, New York, Palgrave, 2001, p. 8 e segg.
[26] Citata in SOKOLSKY Anne E., From New Woman Writer to Socialist: The Life and Selected Writings of Tamura Toshiko from 1936–1938, Leiden, Brill, 2015, p. 7.
[27] YAMAMURA Tim, op. cit, p. 17.
[28] Conferenze tenute a Kōbe, Ōsaka e Kyōto. Furono raccolte in volume edito da Seibidō nel 1912 sotto il titolo Iwayuru atarashiki onna (La cosiddetta Nuova Donna).
[29] Il titolo della rivista fa riferimento alle Blue Stockings, salotto intellettuale femminile organizzato a Londra da Elizabeth Montagu (1720-1800), nel quale si discuteva di tendenze artistiche e di progresso scientifico. In un’epoca in cui non si indossavano che calze nere, la scelta delle calze blu, provocatoria, indicava che le donne di questo salotto di dedicavano ad attività giudicate poco femminili poiché intellettuali.
[30] Sul ruolo centrale di Nora nel panorama culturale di epoca Taishō rimando a prossimo intervento.
[31] Di Dorei esiste una traduzione in lingua inglese, Slave, a opera di Anne Sokolsky e Tim Yamamura: “Dorei (Slave): A Play by Tamura Toshiko”, in Asian Theatre Journal, vol. 27, n. 2, 2010, pp. 203-245.
[32] SOKOLSKY Anne E., YAMAMURA Tim, op. cit., p. 223.
[33] Ibidem.
[34] Ivi, p. 226.
[35] Ivi, p. 227.
[36] Ivi, p. 233.
[37] Come spiega Anne Sokolsky: “Mentre la carriera di Tamura decollava perché scriveva in un nuovo stile su nuovi temi per i lettori, e in particolare per le lettrici, la carriera di suo marito vacillava perché insisteva nello scrivere nel vecchio stile classico sostenuto da Kōda Rohan. Ciò portò a una tensione nel matrimonio di Tamura. La loro relazione tumultuosa e spesso violenta divenne la fonte di molte delle storie di Tamura nei primi anni del Novecento”. Cfr SOKOLSKY Anne E., op. cit., p. 13.