di Luciana Damiani
foto di Alberto Cannetta
Angkor Wat, Siem Reap. Le dita piegate all’indietro come steli di fiori al vento, una bambina danza nel tempio. La sua figuretta, mossa da una musica che solo lei sente, sembra staccarsi dalle pareti e dare nuova vita all’antichità. I movimenti fluiscono come se il suo corpo sottile fosse il tramite con un altro mondo. Secondo la tradizione cambogiana sono gli dei protettori delle arti ad ispirare i danzatori animandone corpo e mente e Thyda – il suo nome significa figlia degli dei – sembra davvero ultraterrena. Fin da piccolissima va con gli altri bambini a mendicare fra i turisti nei templi di Angkor e ogni giorno si ferma incantata a guardare le Apsara – ninfe celesti – che popolano le pareti dei capolavori dell’architettura khmer. Assume le posizioni delle statue, dimentica fame e povertà e danza scalza nei templi.
La danza Khmer, simbolo di eleganza e sensualità, colpisce lo spettatore per la bellezza delle linee, la varietà dei ritmi. Il fluire ininterrotto di movimenti che trapassano l’uno nell’altro ha influenzato anche la nostra danza moderna.
Ad un tempo terrene – i piedi nudi saldamente appoggiati – e aeree – le braccia vibranti nell’aria – le Apsara ben esprimono il passaggio fra terra e cosmo.
La danza di corte, meravigliosa espressione di tecnica ed equilibrio, è una delle più antiche forme dell’arte khmer. Nata intorno al 600 d.C., fu concepita come veicolo sacro e come pratica necessaria per il mantenimento dell’equilibrio cosmico e del benessere sociale. Riservata quasi esclusivamente a principesse e concubine, ha avuto per secoli funzione di rituale di Stato segnando la vita religiosa in tutte le cerimonie della famiglia reale e nei riti propiziatori di prosperità e buoni raccolti.
La grazia delle giovani danzatrici khmer aveva già ammaliato Auguste Rodin nel 1906, quando il corpo di ballo di corte cambogiano era approdato a Marsiglia al seguito di re Sisovath nella sua visita ufficiale in Francia. Seduto su una panchina nel giardino della villa che ospita le ballerine, l’anziano scultore passa giornate a schizzare febbrilmente le silhouette immateriali delle piccole Apsara di Phnom Penh. “La Cambogia ci ha mostrato l’essenza dell’antichità” dirà “E’ impossibile per la natura umana raggiungere tale perfezione” e, quando le ballerinette salpano da Marsiglia, per Rodin “ è come se con loro se ne fosse andata la bellezza del mondo”.
“Mia nonna era una danzatrice di corte” dice Thyda, ma dell’ava non le resta neanche una foto, il regime di Pol Pot ha cancellato anche i ricordi. Bandita ogni forma d’arte ed eliminate tutte le persone identificate come “artista” considerate simbolo di una società arcaica e feudale. Si calcola che fra il ’75 e il ’79, gli anni della dittatura dei Khmer Rossi, sia scomparso il 90 per cento di danzatori e musicisti, i pochi scampati sono sopravvissuti nascondendo la loro identità e la loro arte.
Quando, dopo il successivo decennio di guerriglia, il Paese ha ricominciato a vivere e a guardare al futuro, il nuovo Ministero della Cultura, nel tentativo di recuperare le antiche tradizioni, ha cercato di rintracciare danzatori e maestri, unico tramite col passato in una cultura dove la memoria storica delle arti popolari è stata sempre affidata alla trasmissione orale, di generazione in generazione da maestro ad allievo. Difficile ritrovare i pochi superstiti, dopo gli anni di paura nessuno osava esporsi.
Nel 1988 è stato organizzato uno spettacolo di danza, il primo dopo il colpo di spugna di Pol Pot. Provenienti da tutte le parti del Paese, gli artisti sul palco si abbracciavano ridendo felici di ritrovarsi e piangendo nel ricordo dei compagni scomparsi. Non c’era nulla da cui ripartire se non la grande voglia di ricominciare: senza testi scritti di musica o di coreografie delle danze, senza i ricchi costumi di sete, ori e broccati delle Apsara di corte, senza maschere e strumenti musicali tradizionali, quello allestito a Phnom Penh è stato comunque uno spettacolo che ha attirato un grande pubblico. Vestite di semplice tela di cotone prodotta nelle nuove fabbriche di stato e al suono di pochi tamburi orizzontali, sanphor, le Apsara hanno ballato fra le lacrime del pubblico che rivedeva sul palco la testimonianza di tradizioni ritenute perdute per sempre.
Sangkat Penh Thmey, Phnom Penh. Seyha, bustino giallo con ricami di perline, racconta che quando nel suo villaggio è stata aperta una scuola di danza per bambini del popolo, è diventato realtà il suo sogno di essere un’ Apsara, dal sanscrito “colei che si muove nelle acque.” La lezione avviene sul palcoscenico, in un piccolo teatro in legno costruito sull’acqua. Mentre esercita le dita all’indietro, in una posizione che non sembra possibile per una mano umana, la bambina, 11 anni, dice “dobbiamo rendere onore agli dei, non potremmo danzare a gambe nude o in calzamaglia.” Le allieve, con indosso corpetti aderenti chiusi da una fitta fila di bottoncini, si aiutano a vicenda mettere la gonna o kban, un telo lungo tre metri che viene prima girato intorno ai fianchi, poi i due lembi tesi davanti vengono arrotolati, passati fra le gambe e fissati dietro alla vita con una pesante cintura di metallo. “ Al sabato invece di danzare, lavoriamo al telaio e impariamo a tessere i nostri i nostri kban” aggiunge seria. Le ragazze ora sono tutte pronte per la lezione.
“Ci vorranno molti anni per imparare 1165 gesti che costituiscono l’alfabeto base della danza khmer” dice la maestra, qualche filo bianco nei capelli e la sicurezza di gesti di chi è stato a lungo sul palcoscenico. Guarda concentrata le ragazze, poi si alza, piega il braccio di una, arcua la vita di un’altra, sembra uno scultore che modella i corpi come fossero di argilla.
Durante la lezione le allieve alternano danza e strumenti. Il complesso – pinpeat – è composto da indefinibili percussioni tradizionali – carillon di piccoli gong, xilofoni, tamburi orizzontali – samphor – considerati i veicoli spirituali della danza.
La melodia scorre lungo scale musicali diverse dalle nostre creando effetti che sconcertano lo spettatore occidentale: sembra acqua di sorgente, vento fra le fronde. “Per accompagnare uno spettacolo di danza non basta la musica. E’ il cuore che ha il compito di collocare e commentare azioni e sentimenti agiti dalle danzatrici” dice l’autore cambogiano Samdech Chaufea Thiounn.
“Domani c’è uno spettacolo” annuncia Seyha e gli occhi neri le si accendono di luce, “la maestra ha detto che potete venire anche dietro le quinte.”
Dopo gli anni bui, la danza khmer ha ritrovato il fasto della tradizione di corte e la preparazione è laboriosa, ci vogliono non meno di tre ore per vestizione e trucco. Non ci sono bottoni, lacci o ganci, i costumi vengono letteralmente cuciti sul corpo, come una seconda pelle. L’ultimo atto è la posa del makot, il copricapo dorato che viene fissato in testa con delle forcine. “Pesa quasi due chili” dice Seyha indossandolo, e non è più una bambina ma una piccola dea, carica di monili al collo, alle braccia, alle caviglie. “Ora dobbiamo chiedere l’ispirazione agli dei” dice mentre si accosta all’altare e vengono accesi candele e incensi. Poi resta immobile in silenzio con le compagne fino all’entrata in scena.
Il palcoscenico della danza khmer non prevede l’uso di scenografie. Tutto viene evocato attraverso il movimento e la musica. Anche il volto delle ballerine è immobile, muto. Non distratto dalla personalità della danzatrice, lo spettatore può meglio cogliere la bellezza delle linee. Sono i movimenti delle mani – kbach – a comunicare le emozioni. “Ridere con la bocca è umano, ridere con le mani è di origine divina” dice un cru, maestro di danza.“Mani come attori, mobili ed autonome nella loro recitazione” le descrive R.M. Rilke.
I gesti della danza cambogiana sono un vero e proprio linguaggio. Ognuno di essi è come una parola e la loro successione forma delle frasi. Il corpo è attraversato da una ondulazione verticale e oscilla giocando sulla flessibilità delle ginocchia. I corpi immateriali delle ballerine, che neanche i ricchi costumi riescono ad appesantire, sono percorsi da lampi di movimento, vibrazioni, fremiti, sussulti.
Hanno mosse ferine, camminano strisciando delicatamente i piedi, la testa immobile, le braccia sinuose come se galleggiassero nell’acqua. Diventano serpenti, il corpo è uno zigzag di repentini cambi di direzione: testa reclinata di lato, palmi volti all’indietro, gomiti piegati, vita arcuata, culetto sporgente, ginocchia flesse, piedi rivolti all’insù. Poi le mani palpitano schiudendosi come corolle di fiori, sembrano sfogliarsi petalo dopo petalo. Le braccia producono movimenti serpentini che passano da una mano all’altra passando per le scapole. Le gambe sempre piegate permettono slanci e morbidezze, il corpo affonda e si rialza gradualmente con scosse impercettibili.
Queste fanciulle piccole e minute possono sollevarsi e sembrare grandissime trasportando il pubblico nella loro magia dove sono giunchi mossi dal vento, il guizzo di un pesce, rettili sinuosi o voli di farfalle. La morbida lentezza dei movimenti amplifica l’effetto teatrale della scena, la ferma nel tempo e nello spazio riportando lo spettatore ai bassorilievi di Angkor dove l’uomo ha fissato nella pietra la danza delle Apsara. I templi dimenticati nella giungla e ora avvolti nell’abbraccio delle gigantesche radici aeree dei banyan ben rappresentano lo stretto legame dell’anima khmer con la natura.
tratto da: Storie da un altro mondo di Luciana Damiani, Associazione Il Nodo Cooperazione Internazionale ONLUS www.ilnodoonlus.com
Bibliografia
Fabio Morotti, Teatro e danze in Cambogia, Riano (RM), Editoria & Spettacolo, 2010
Denise Heywood, Cambodian Dance: Celebration of the Gods, Bangkok, River Books, 2008
Christophe Loviny, Les Danseuses sacrées d’Angkor, Paris, Seuil Jazz Editions, 2002
Toni Samantha Phim, Ashley Thompson, Dance in Cambodia, Singapore, Oxford University Press – South East Asia, 1999
Video
realizzati da Alberto Cannetta
presso la Khmer Arts Academy (Phom Penh, Cambogia)
Spettacolo
Backstage
Riferimenti
Khmer Arts Academy www.khmerarts.org