di Filippo Comisi
«Il teatro di pupazzi riproponendo il mondo umano nei termini delle marionette e del burattino o delle figure d’ombre o comunque altro sia, apre spazio enorme al bisogno di evasione e di poesia che si annida in ciascuno di noi».
Maria Signorelli [1]
La straordinaria collezione di Maria Signorelli, popolata da marionette, burattini, ombre, fantocci, carte ritagliate, giocattoli, maschere, documenti e attrezzi, offre molteplici spunti per affrontare in maniera sistematica una serie di argomenti legati ai vari tipi di rappresentazione teatrale. La sezione orientale dell’immenso patrimonio accumulato dalla Signorelli comprende per lo più marionette, burattini e ombre, dalle eterogenee provenienze: Cina, Giappone, India, Malesia Thailandia, Birmania, Indonesia (Giava e Bali), Turchia.
Nata nel 1908 da Olga Resnevitch, di origine lettone, e da Angelo Signorelli, entrambi medici, Maria fu sottoposta sin dalla prima infanzia alle suggestioni dell’ambiente familiare. I genitori furono infatti sostenitori della cultura e amanti del teatro (la madre fu anche biografa di Eleonora Duse). Nel salotto che essi tennero per anni nel palazzetto Bonaparte in via XX Settembre a Roma, le figlie entrarono in contatto con un ambiente che di certo contribuì ad accendere in Maria una passione che sarebbe cresciuta nel tempo.
Dopo il compimento degli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Roma, Maria Signorelli iniziò la sua formazione in qualità di scenografa presso il Teatro Reale. [2] Ben presto tuttavia il suo amore per il mondo del teatro di figura la condusse alla sperimentazione del colore e della forma. Creò così i primi fantocci, protagonisti della sua prima mostra personale nel 1929 presso la Casa d’Arte Bragaglia di Roma. L’anno seguente i suoi lavori furono ospitati a Parigi nella Galleria Zak e presentati da Giorgio De Chirico. Seguì un lungo soggiorno a Berlino dove l’artista frequentò la scuola di Max Reinhardt ed espose le sue creazioni, molte delle quali di stampo espressionista, presso la Galleria Gurlitt. È tuttavia nel 1937 che, accogliendo la proposta della cantante svizzera Maria Amstad, la Signorelli inizia ad allestire alcuni spettacoli di burattini, creando per la prima volta fantocci per la scena.[3] Durante gli anni della guerra 1943-45, la Signorelli aveva poi realizzato privatamente spettacoli per figli ed amici. Il ‘47 segna la svolta, nasce l’Opera dei Burattini, alla cui attività, presto regolare, collaborarono artisti di un certo calibro.[4] Era così iniziata la brillante e sfaccettata carriera di Maria Signorelli, genio artistico del suo tempo.
Alla serrata attività teatrale si sommarono gli impegni volti alla divulgazione di quest’arte: il collezionismo, mostre e dibattiti, la fondazione del Museo del Burattino a L’Aquila, le traduzioni, come Il Mestiere del Burattinaio di Obraszov edito da Laterza, seminari e tournée tenuti in Italia e all’estero, trasmissioni radiofoniche (tra cui: Moto perpetuo, 1953-54; Giochiamo al teatro, 1967-68) e televisive (come Serata di gala al Teatro dei Burattini, 1958; Piccolo mondo magico, 1959; Pomeriggio all’Opera, 1960, ecc.), oltre a numerose collaborazioni con riviste specializzate.
Nel 1972 infine Maria approda alla didattica assumendo l’insegnamento del Teatro di Animazione, creato appositamente per lei, presso il DAMS di Bologna, cui resta fino al 1979. Membro del consiglio mondiale dell’UNIMA, (Union Internationale de la Marionnette), fondata a Praga nel 1929, ella fu presente sin dal 1957, primo congresso internazionale del dopoguerra. Convinta sostenitrice dell’associazione partecipò nel 1980 alla creazione della sua sezione italiana, della quale fu presidentessa e in seguito presidentessa onoraria.
Maria Signorelli si spense a Roma il 9 luglio 1992, lasciando i suoi piccoli amici alla cura delle figlie Giuseppina e Maria Letizia Volpicelli.
È grazie all’appassionata attività di collezionista di Maria Signorelli e alla sua nutrita raccolta, messa insieme attraverso acquisti, donazioni, scambi, viaggi, un po’ per curiosità delle diverse forme teatrali ma soprattutto per preservare un patrimonio fortemente minacciato dall’avvento dei nuovi media, che possiamo ancora oggi godere della visione di un’altissima forma d’arte, in parte dimenticata.
Focalizzando l’attenzione sul teatro di figura cinese, si tralasceranno in questa sede argomenti riguardanti la nascita e la produzione legate a quest’arte, concentrando piuttosto l’interesse sui temi narrativi suggeriti da alcuni protagonisti della stessa Collezione Signorelli.
L’abbondante presenza di ombre all’interno della collezione si giustifica, da una parte, con lo straordinario gusto di Maria per gli elementi esotici, dall’altra, per la conoscenza profonda che ella aveva di quest’arte, approdata in Europa sin dall’inizio del Seicento. Affatto sconosciute alla Francia settecentesca quale genere teatrale, le ombre, dette ombres choinoises, erano le protagoniste del teatro di François Dominique Séraphin (15/02/1747 Longwy – 5/12/1800 Parigi), creato a Versailles nel 1770 e rimasto in attività sino al 1859, egli stesso fu inoltre ospitato nel 1784 presso le gallerie del palazzo reale per il sollazzo di re e nobili. [5] In Germania Goethe faceva realizzare spettacoli di teatro delle ombre sulle opere la Vita di Minerva e il Giudizio di Mida. Infine in Italia il gesuita Domenico Ottonelli nel terzo trattato della sua opera Della Christiana Moderazione del Theatro definiva queste sagome animate brianti ombranti o commedianti figurati; attribuendone l’invenzione al veneziano Giuseppe Cavazza.[6]
Partendo dall’identificazione di vari personaggi della Collezione Signorelli, si proseguirà con la trattazione di alcuni cicli letterari che spesso costituivano il tema narrativo delle rappresentazioni teatrali cinesi.
Fiorenti con tutta probabilità già all’epoca della dinastia Tang (618-907 d.C.), il teatro delle ombre e quello dei burattini e delle marionette, compaiono per la prima volta in forma esplicita solo nelle descrizioni risalenti alla dinastia Song (960-1279 d.C.). Nessun testo teatrale di epoca Song ci è stato tuttavia tramandato e le informazioni al riguardo rimangono scarse anche per i secoli successivi. Solo nel XX secolo i testi di queste forme teatrali cominciarono ad essere raccolti e tradotti; nella maggior parte dei casi si tratta di elaborazioni abbastanza brevi, che assomigliano in parte alle tradizioni del teatro regionale (nanqu e kunqu).[7]
Le ombre (in cinese piying = ombra in pelle) della collezione, che raggiungono complessivamente il centinaio, sono databili fra gli anni ’40 e ‘80, realizzate in pelle con esempi più recenti in plastica a denotare una meccanizzazione della produzione. Le numerose figure di provenienza cinese si suddividono nelle tre grandi categorie del teatro delle ombre: personaggi umani, animali e decorazioni sceniche o accessori. Al variare di acconciatura, abito, trucco, copricapo, barba ecc. le figure umane vengono distinte poi in quattordici tipologie,[8] raggruppate per lo più nei quattro tipi di personaggi del teatro dell’opera classica: sheng, personaggi maschili; dan, personaggi femminili; jing, visi dipinti; chou, “clown”. All’interno di questi se ne possono riconoscere alcuni tratti dal ciclo narrativo del Xi You Ji, Viaggio verso Occidente o Scimmiotto (a seconda dell’edizione italiana), in particolare Sha Wujing o Monaco Sabbioso, mentre dal ciclo dell’opera tradizionale Nao Tian Gong, Scompiglio del Palazzo Celeste, Yang Jian con volto dipinto di rosso. Altri personaggi identificabili, non riconducibili però a nessun preciso ciclo letterario, sono l’imperatore diwang (fig. 1), con barba realizzata in crine di cavallo e tipico copricapo mian guan; guerrieri, generali, caratterizzati dalle tipiche bandiere che spuntano da dietro le spalle, e nobildonne dai tipici loti d’oro, i piedi fasciati.
Stilisticamente la maggior parte delle ombre della collezione è riconducibile alla scuola dello Shaanxi, che realizza ombre in pelle di bovino fra i 30 e i 35 centimetri; non mancano tuttavia esempi dal teatro noto col nome di Beijing, generalmente realizzate in pelle d’asino dalle gilde di Lanzhou nel Gansu.[9] Le ombre di questa tradizione hanno due diverse misure: tra i 25 e i 30 centimetri se appartenenti alla tradizione nota come di Beijing orientale, o tra i 35 e i 40 centimetri se ascritte alla tradizione detta di Beijing occidentale.
Nel suo manuale La Letteratura Cinese, Giuliano Bertuccioli, a proposito del Viaggio verso Occidente, afferma: «[…] si entra nel campo della pura fantasia, delle favole che un tempo erano raccontate nei cortili dei templi ad un pubblico credulo e ingenuo, ma avido nel tempo stesso di notizie sui misteriosi paesi donde era venuta la dottrina di Buddha».[10]
Basato sullo storico episodio che ha per protagonista il monaco Xuanzang (602-664 d.C.), questo romanzo del periodo Wanli (1573-1620) combina storie popolari buddhiste e taoiste con la pura fantasia, divenendo oggetto delle rielaborazioni dei cantastorie e una delle maggiori rappresentazioni del teatro cinese. Composta da Wu Cheng’en (1510-1580 ca.) probabilmente tra 1570 e 1580,[11] la prima edizione del romanzo risale invece al 1592. L’opera è frutto della rielaborazione dell’episodio che tanto doveva aver colpito i contemporanei del pellegrino, vissuto circa mille anni prima dell’autore del romanzo, la cui storia fu frutto di numerosi scritti (fra questi i resoconti di entrambi i suoi discepoli). I 100 capitoli di cui si compone raccontano il viaggio gravido di pericoli del famoso monaco Xuanzang, compiuto negli anni 629-645 in India, il Paradiso Occidentale, alla ricerca degli originali testi buddhisti. Nel romanzo il viaggio dura quattordici anni, durante i quali Sanzang recupera più di cinquemila sutra, eccetto il Sutra del Cuore, motivo quest’ultimo della continuazione del viaggio. All’interno di questa rielaborazione fantastica il pellegrino, per quanto venga rappresentato in maniera devota, si caratterizza per essere timoroso e piuttosto lamentoso, a tal punto da cedere il ruolo di protagonista a Sun Wukong, lo Scimmiotto. Nel corso della narrazione sono presentate ottantuno disavventure che si risolvono con l’intervento della scimmia e di altri accompagnatori: il cavallo; Zhu Bajie o Porcellino; Sha Wujing o Monaco Sabbioso (fig. 2).
Quest’ultimo così descritto:
«Verdognolo, bluastro il brutto muso, o forse nero. Non grande né piccolo.
Un corpo muscoloso e piedi nudi. Occhi di brace, come lucerne accese sotto il forno. Bocca piegata agli angoli e scarlatta come tazza di sangue. Denti aguzzi, taglian come coltelli. Una gran zazzera di capellacci rossi scompigliati.
Fa un grugnito profondo come il tuono.
E i suoi piedi lo portano sull’acqua alla velocità dell’uragano. […]
Guanyin gli posò la mano sulla testa, gli impartì le otto proibizioni e gli diede il nome di Sabbioso, in religione Consapevole della Purezza, Sha Wujing.
Egli accompagnò Guanyin nella traversata del fiume, purificò il cuore e la mente,
rinunciò a nuocere agli esseri viventi e restò ad aspettare l’arrivo del pellegrino».
Xi You Ji cap. VIII, André Levy editore, Paris, 1991.
Sabbioso è una delle sagome che arricchisce la Collezione Signorelli. Acquistata in Cina verso la seconda metà del XX secolo, l’ombra in pelle, dipinta di blu, nero e rosso, rispecchia fedelmente la descrizione del romanzo.
Lo stesso personaggio appare anche all’interno della collezione di burattini, che comprende circa trenta esemplari (fig. 3). Meno fedele al testo, questo personaggio reca sul viso il classico lianpu,[12] elemento costituente dell’Opera di Pechino.
Il trucco facciale è una pratica probabilmente molto antica adottata da coloro che celebravano le cerimonie o dai guerrieri in battaglia. Nella narrativa popolare sono numerosi gli accenni a questa abitudine: nel Sanguo Yanyi, Romanzo dei Tre Regni, ad esempio, il condottiero Guan Yu è descritto con volto vermiglio. È probabile, inoltre, che su questi riferimenti gli interpreti del teatro avessero creato il trucco facciale tenendo da conto il valore fortemente simbolico del colore.[13]
Il trucco, che sostituì le maschere nel periodo Ming (1368-1644), denuncia le caratteristiche del personaggio: il rosso è solitamente associato alla lealtà, il giallo all’impetuosità e alla violenza, il blu al coraggio e al vigore, il bianco all’astuzia e al tradimento, il nero alla giustizia ma anche alla risolutezza. [14] A questi colori se ne aggiungono altri così da moltiplicare la combinazioni possibili e le sfumature caratteriali del personaggio.
Il burattino raffigurante Sabbioso, in legno e stucco, presenta una veste aranciata in seta ricamata in blu e verde. Le mani chiuse a pugno sono forate per permettere di tenere degli oggetti (in questo caso un tridente con nappe). Il volto, dalla fattezze mostruose, presenta, oltre ai colori che lo contraddistinguono come un personaggio jing, dei folti e lunghi baffi in crine di cavallo. Il burattino, acquistato in Cina, è databile tra gli anni ’60 e ’80 del XX secolo.
Fra i burattini figura un altro protagonista della mirabolante avventura, Zhu Bajie noto anche come Maialino (fig. 4). Burattino a stecca, in cartapesta colorata a tempera nei toni del marrone, con una veste in seta nera stretta alla vita da una cintura gialla, esso è databile intorno agli anni ’80 del XX secolo.
Nel romanzo Porcellino è così descritto:
«All’arrivo era un discreto pezzo d’uomo, un moro; ma un po’ per volta prese un aspetto da scemo, con un grugno lungo lungo e orecchie larghe; dietro la nuca gli sbucarono certe lunghe setole rade. Il corpo prese proporzioni enormi. La testa, in poche parole, è quella di un grosso maiale. E l’appetito! In un pasto si mangia quattro o cinque moggi di riso. […] Ma quanto mangia non è il peggio. Ha imparato a giocare col vento, sale sulle nuvole, solleva sabbia e fa rotolare pietre; terrorizza noi e tutti quanti qui intorno, i vicini di destra e quelli di sinistra. Non si vive più tranquilli».
E ancora:
«Al termine dell’uragano, scese dall’alto un mostro proprio brutto: aspetto scuro e setoloso, muso lungo, orecchie larghe. Indossava una lunga tunica diritta di tela grossolana, di incerto colore scuro, stretta alla vita da una fascia di cotone a fiori». Xi You Ji cap. XVIII, André Levy editore, Paris, 1991.
Il romanzo può inoltre essere considerato come un racconto allegorico. Il monaco Sanzang può essere interpretato come l’essere umano in cerca dell’illuminazione; il cavallo che lo trasporta è la sua volontà; la scimmia, ingegnosa e superba, è il suo cuore e di conseguenza anche la sua mente dato che secondo i cinesi esso è sede anche del pensiero e della coscienza; il maiale, sciocco e lussurioso, rappresenta infine la sua forza fisica e le sue inclinazioni.
Per quanto sia difficile ravvisare un’omogeneità di repertorio che superi i confini di una singola provincia, esistono pochi cicli letterari, di cui il Xi You Ji è fulgido esempio, frequentemente adottati poiché in grado di sprigionare il “meraviglioso”, caro alle tradizioni del teatro delle marionette e delle ombre. Particolarmente il secondo è il mezzo attraverso il quale si scatena il fantastico, a tal punto da costituire fonte d’ispirazione per gli effetti speciali cinematografici quando si iniziò ad adattare i cicli letterari fantastico-cavallereschi per grande schermo (a Shanghai fra 1928 e 1935, a Hong Kong tra 1945 e 1960 ca.).
Dal medesimo ciclo letterario proviene inoltre l’ombra di Yang Jian, uno dei protagonisti dell’opera Nao Tian Gong, Scompiglio nel Palazzo Celeste. Questa storia, tratta appunto dal più ampio Viaggio verso Occidente, ne costituisce il preludio, raccontando le origini stesse di Sun Wukong. Il re delle scimmie, nato da un uovo di pietra e divenuto immortale con astuzia e guasconeria, porta scompiglio fra le schiere celesti, esaltando la propria forza e l’incapacità dei generali del Cielo mandati dall’Imperatore di Giada. Condannata nel romanzo a scontare cinquecento anni murata all’interno di una montagna, la scimmia viene infine salvata dalla misericordiosa Bodhisattva Guanyin che le impone di accompagnare il pavido monaco Sanzang nel suo viaggio in India. In epoca contemporanea questa novella fantastica è stata fonte di ispirazione per cinema (particolarmente nota la versione dei fratelli Wan), televisione, fumetti (tra cui il noto Dragon Ball) ecc.
L’opera teatrale moderna, in undici atti, è liberamente tratta dai primi capitoli del romanzo. Dopo la sua miracolosa nascita, la scimmia, divenuta amica di una moltitudine di sue simili, scopre una grotta dove vivere in pace e tranquillità in compagnia del suo popolo. Trascorsi diversi secoli abbandona il proprio rifugio per esplorare il mondo, divenendo così discepolo di un eremita che l’inizia alla magia e l’appella Sun Wukong, Cosciente di Vacuità. Prima di tornare alla propria tribù, decide tuttavia di procurarsi un’arma invincibile per proteggere la caverna. Saccheggia così il palazzo del Re Drago, possessore di un metallo speciale in grado di allungarsi e accorciarsi a comando. L’opera ha inizio proprio col re Drago che chiede all’Imperatore di Giada di punire in modo esemplare l’impertinente scimmia.
Strappato con l’inganno al monte dei Fiori e dei Frutti, regno delle scimmie, Sun Wukong viene attirato in Cielo con l’offerta di una carica amministrativa. Ben presto però capisce di essere stato gabbato e torna alla sua vita felice; nuovamente un messo imperiale lo invita ad una festa in cielo, a sua detta organizzata in suo onore. Stavolta l’astuto scimmiotto, sospettando l’inganno, usa la magia, si rende invisibile e, asceso al cielo, scopre che in realtà qui fervono i preparativi per il genetliaco dell’Imperatrice madre. Infuriato dà allora sfogo alle sue ire, mangia tutte le pesche fatate, mette a soqquadro la sala del banchetto e beve l’elisir del Supremo Comandante Militare che dona l’immortalità. Oramai fuggitivo viene catturato e gettato per ordine dell’Imperatore in una fornace da cui esce indenne. Tornato dalle scimmie ingaggia quindi una spettacolare battaglia contro l’esercito celeste che lo vede prevalere (nel romanzo il beniamino culturale cinese ha la peggio).
L’ombra della Collezione Signorelli, identificata come il generale Yang Jian (fig. 5), è databile all’ultimo ventennio del XX secolo. Il personaggio, caratterizzato da volto rosso vermiglio, è raffigurato sopra le nuvole, riccamente abbigliato e, col braccio proteso, in atto di muovere guerra.
Infine si possono identificare come appartenenti al noto romanzo di epoca Qing (1644-1911), Honglou Meng, Il Sogno della Camera Rossa, due personaggi femminili con abito in seta ricamata (fig. 6), ampie “maniche d’acqua” shuixiu, trucco e acconciatura tipici della nobiltà, e un personaggio maschile, il protagonista del romanzo, Jia Baoyu, tutti databili intorno agli anni ’40 del XX secolo.
«Sul suo volto era diffusa una luce, se possibile, ancor più viva. Il colore naturale delle guance e delle labbra vinceva l’artificio della cipria e del belletto, il suo sguardo era anima, la sua parola sorriso. Ma l’indole sua si esprimeva soprattutto nel gioco armonioso delle sopracciglia. Tutti i cento sentimenti umani sembravano raccolti in un angolo del suo viso». Ts’ao Hsüeh-ch’in, Il Sogno della Camera Rossa, Einaudi, Torino, 2006, p. 37.
«È con la descrizione del protagonista, nato con un pezzo di giada in bocca, che si comprende ulteriormente l’eclettismo del personaggio riccamente abbigliato come un mandarino: lo hua dian fra le sopracciglia per abbellire la fronte, il copricapo tempestato di perline, l’abito in seta e raso verde ricamato in oro e argento, recante sul petto un riquadro bordato in lapin ospitante il carattere benaugurante shou, lunga vita, la cintura preziosa riservata all’imperatore e ai più alti funzionari».[15] (fig. 7)
Il romanzo, scritto da Cao Xueqin (1715-1764), ma pubblicato solo nel 1792, descrive con dovizia di particolari l’agiata vita della nobile casata Jia e la sua conseguente decadenza. Sproporzionato il numero delle protagoniste femminili, dodici fra cugine e sorellastre di Baoyu. Tra queste, due in particolare con i loro continui contrasti animano l’intreccio principale del racconto: Lin Daiyu, nota anche come Gioiazzurra, lamentosa e malaticcia e Xue Baochai, forte e solare. Il rampollo di casa, che si divide tra le due, deciderà infine di sposare Lin Daiyu, scoprendo tuttavia, una volta nella camera nuziale, di essere stato vittima di un intrigo (ordito dalla cugina acquisita Donna Fenice o Wang Xifeng) e di aver sposato Baochai. Dopo aver assolto i propri doveri, in senso confuciano, garantendo alla propria stirpe discendenza e fama, in seguito al superamento degli esami imperiali, Jia Baoyu diventa discepolo di un monaco taoista e a sua volta monaco buddhista.
« – Nel gran mondo, nelle sfere dell’aristocrazia, della ricchezza e della molle vita di piacere, non conosceste un certo Pao-yü?
Se lo conosco! Sono stato spesso in casa sua. Si vocifera che recentemente abbia varcato anche lui la porta del Grande Vuoto. Non l’avrei mai creduto capace di una decisione simile, quel ragazzo effeminato e mondano!
– Ma io sì! Conoscevo già da gran tempo tutta la sua storia. Vi ricordate quella sera estiva, […], quando mi vedeste sulla porta della mia vecchia abitazione, vicino al Tempio del Cetriolo? L’avevo incontrato poco prima. […]
– E conoscete anche la sua attuale dimora?
– Il suo posto è di nuovo come un tempo nei Campi Beati della Purificata Apparenza, […]. Perché Pao-yü è una pietra preziosa. Come? Non mi capite? Venite con me nella mia cella, qui vicino! Vi spiegherò la Storia della Pietra».
Ts’ao Hsüeh-ch’in, Il Sogno della Camera Rossa, Einaudi, Torino, 2006, pp. 691-692.
Con queste poche righe si chiude il romanzo. Baoyu ha detto addio alla polvere rossa del mondo ed è tornato al luogo da cui era venuto, i Campi Beati della Purificata Apparenza. Solo dopo l’intero sviluppo della storia si è quindi in grado di comprendere appieno l’allegorico capitolo d’apertura. Alla pietra verrà data la possibilità di sperimentare la vacuità dell’esistenza umana, incarnandosi in Jia Baoyu; mentre la pianta Perla Purpurea, desiderosa di ripagare le gentilezze ricevute dalla pietra, è adesso Lin Daiyu cugina di Baoyu.
« – Perché hai preso la pietra con te?
Rispose il bonzo: – Per intervenire in un dramma d’amore che, per volere della Provvidenza, sta per svolgersi nel mondo terreno. L’eroe del dramma ancora non è rinato in terra. Io voglio approfittar dell’occasione per mandar la pietra nel mondo e darle in quel dramma la parte dell’eroe.
– E come ha origine il dramma?
– È una storia strana. Nel lontano Occidente, […], cresceva una volta la pianta Perla Purpurea. Allora la nostra pietra conduceva un’inquieta vita raminga. Quando la dea Nükua aveva riparato gli spezzati stipiti del cielo, essa sola, fra le 36501 pietre scelte a questo scopo, era stata infine scartata per la sua insufficienza. Al contatto della mano divina aveva acquistato un’anima: […] giorno e notte sentiva dolorosamente l’umiliazione, che la dea le aveva inflitto giudicandola inservibile.
– Nelle sue peregrinazioni giunse un giorno al palazzo della Fata dell’Improvviso Risveglio. La fata, […], l’accolse nel suo seguito e le diede il titolo “Custode della Fulgida Pietra Divina” nel Palazzo delle Nuvole Rosse. Ma la pietra non seppe rinunciare al suo vagabondaggio.
– Soleva spesso sottrarsi al servizio di palazzo e andava a passeggiare sulla riva del Fiume degli Spiriti. E là scoprì la pianta Perla Purpurea. Le pose grande amore e ogni giorno, con tenera cura, l’irrorava di dolce rugiada. […]. E grazie al benefico ristoro della dolce rugiada, […] poté più tardi spogliarsi della forma terrena di pianta e rivestire figura umana. La fragile pianta si trasformò in una fanciulla.
– […] Non poteva dimenticare che un tempo, quando era ancora una fragile pianta, qualcuno l’aveva nutrita di dolce rugiada; e la stringeva il desiderio di ripagare il beneficio […] : – […]se mi fosse concesso d’incontrarlo sulla terra, in una prossima esistenza umana, vorrei ringraziarlo con tante lacrime, quante potessi versarne in una lunga vita.-
– Ecco la premessa del dramma d’amore che per volere della Provvidenza sta per svolgersi sulla terra. Gli attori, e fra loro la pianta Perla Purpurea, si preparano già a scendere sulla scena terrestre. Non tardiamo a riportare la nostra pietra alla sua signora, la Fata dell’Improvviso Risveglio, perché l’inserisca nell’elenco degli attori e la mandi a raggiungerli».
Ts’ao Hsüeh-ch’in, Il Sogno della Camera Rossa, Einaudi, Torino, 2006, pp. 5-6.
NOTE
[1] http://www.collezionemariasignorelli.it/la_vita_di_maria_signorelli.htm
[2]Diretto all’epoca da Nicola Benoist.
[3] Fra i primi spettacoli messi in scena da Maria Signorelli spiccano: La boîte à joujoux, Bastien et Bastienne e La legende dorée, presentati nella Sala dei Concerti Intimi di via Boncompagni a Roma.
[4] Fra i nomi più noti si ricordano: Lina Wertmüller, Gabriele Ferzetti, Gaspare Pascucci e Scilla Brini, Enrico Prampolini, Ruggero Savinio e Toti Scialoja, Ennio Porrino, Vieri Tosatti e Roman Vlad, Margherita Wallmann e Giuseppe De Martino.
[5] Lemercier de Neuville L., Les Pupazzi Noirs, Charles Mendel Editeur, Paris, 1896, pp. 7-8.
[6] Fornari Schianchi L. (a cura di), Ombre cinesi e quadri in ferro, Artegrafica Silva, Roma, 1985, p. 46.
[7] Idema W., Haft L., Letteratura Cinese, Cafoscarina, Venezia, 2000, pp. 226, 227.
[8] La tradizionale classificazione suddivide i personaggi in: shamao, giovani letterati dal copricapo di garza; wensheng, letterati di età più avanzata con folta barba; wusheng, guerrieri; wendan, peronaggi femminili “civili”; wudan, donne guerriere; laodan, anziane; shuaijiang, generali; diwang, imperatori; fanwang, re barbari e capi ribelli; wenchou, clown; wuchou, clown militari; xian fo seng dao, personaggi religiosi o magici come Buddha, preti taoisti, immortali, bodhisattva; yaomo guiguai, mostri, demoni e fantasmi; bingzu xiaoshou, guardie e soldati. Da questa suddivisione restano tuttavia esclusi molti personaggi come ad esempio i jing, rientranti ora in un gruppo ora in un altro.
[9] L’epoca Ming (1368-1644) vide l’ascesa del teatro delle ombre della città di Lanzhou nel Gansu, che si diffuse fino allo Hebei orientale arrivando a toccare Pechino attorno ai primi decenni della dinastia Qing (1644-1911). A Lanzhou, svincolatosi dai cantastorie, il genere ebbe un grande sviluppo in direzione del melodramma musicale, dal quale mutuò gli stili di canto, il corpus rappresentativo e la composizione dell’orchestra.
[10] Bertuccioli G., La Letteratura Cinese, Accademia ed., Milano, III ed., 2007, p. 292.
[11] Idema W., Haft L., Letteratura Cinese, Cafoscarina, Venezia, 2000, pp. 240-242.
[12] Mackerras C., Chinese Theater from its Origins to the Present Day, University of Hawaii Press, Honolulu, 1983, p. 139: “Tecnicamente esse sono classificate come “facce d’olio”, i colori sono mischiati all’olio per dare un effetto lucido, e come “facce di polvere”, per le quali i colori vengono mischiati con acqua per rendere una superficie opaca”.
[13] Pisu R., Tomiyama H., L’Opera di Pechino, Mondadori, Milano, 1982, p. 231.
[15] Comisi F. “La Cina nella Collezione di Maria Signorelli”, in Il Principe e la sua Ombra Burattini e Marionette tra Oriente e Occidente dalla Collezione di Maria Signorelli (a cura di Manna G.), Gangemi editore, Roma, 2014, p. 61.
Indice delle figure
Figura 1, ombra della Collezione Signorelli, raffigurante l’imperatore, seconda metà del XX sec. © Primangeli
Figura 2, ombra della Collezione Signorelli, raffigurante Sha Wujing, Monaco Sabbioso, seconda metà del XX sec. © Comisi
Figura 3, burattino della Collezione Signorelli, raffigurante Sha Wujing, Monaco Sabbioso, seconda metà del XX sec. © Primangeli
Figura 4, burattino della Collezione Signorelli, raffigurante Zhu Bajie, Maiale, seconda metà del XX sec. © Primangeli
Figura 5, ombra della Collezione Signorelli, raffigurante Yang Jian, generale celeste, seconda metà del XX sec. © Comisi
Figura 6, burattino della Collezione Signorelli, raffigurante una dama, anni ‘40 del XX sec. © Primangeli
Figura 7, burattino della Collezione Signorelli, raffigurante Jia Baoyu, ragazzo di giada, anni ‘40 del XX sec. © Primangeli
Bibliografia
Bertuccioli G., “Cina”, in Enciclopedia dello spettacolo, Roma, casa editrice le maschere, vol. III, 1958.
Bertuccioli G., La Letteratura Cinese, Accademia ed., Milano, III ed., 2007.
Chesnais J., Historie Generale des Marionettes, Paris, Editions d’Aujourd’hui, 1947.
Chen Fan Pen, Shadow Theaters of the World, in «Asian Folklore Studies», vol. 62, n. 1, 2003.
Chen Fan Pen Li, Chinese Shadow Theater, Canada, McGill-Queen’s Press, 2007.
Comisi F. “La Cina nella Collezione di Maria Signorelli”, in Il Principe e la sua Ombra Burattini e Marionette tra Oriente e Occidente dalla Collezione di Maria Signorelli, Manna G. (a cura di), Gangemi editore, Roma, 2014.
Di Gaetano L., Intervista a Giuseppina Volpicelli, Sulle Orme della Madre, in «Sipario – UNIMA», luglio-ottobre, n. 2, 1994.
Dolby W., A History of Chinese Drama, New York, Barners & Noble, 1976.
Fornari Schianchi L. (a cura di), Ombre cinesi e quadri in ferro, Artegrafica Silva, Roma, 1985.
Humphrey J., Monkey king: a celestial heritage, New York, St. John’s University, 1980.
Idema W., Haft L., Letteratura Cinese, Cafoscarina, Venezia, 2000.
Inge C. Orr, Puppet Theater in Asia, in «Asian Folklore Studies», vol. 33, n.1, 1974.
Lemercier de Neuville L., Les Pupazzi Noirs, Charles Mendel Editeur, Paris, 1896.
Mackerras C., Chinese Theater from its Origins to the Present Day, University of Hawaii Press, Honolulu, 1983.
Pimpaneau J., Des Poupées à l’ombre le théâtre d’ombres et de poupées en Chine, Paris, Centre de publication Asie orientale, 1977.
Pimpaneau J. (a cura di), Les Theatres d’Asie, Paris, Musée Kwok On, 1980?.
Pimpaneau J., Promenade au Jardin des Poiries, l’Opéra Chinois Classique, Paris, Musée Kwok On, 1983.
Pisu R., Tomiyama H., L’Opera di Pechino, Mondadori, Milano, 1982.
Obraszov S., Theater in China, Berlin, Henschelverlag, 1963.
Pilone R., Ragaini S., Yu Weijie (a cura di), Teatro cinese architetture costumi scenografie, Milano, Elacta, 1995.
Savarese N., Il Racconto del Teatro Cinese, Roma, Carocci ed., 2003.
Signorelli M., Storia e Tecnica del Teatro delle Ombre, L’Aquila, Marcello Ferri editore, 1981.
Signorelli M., Il Gioco del Burattinaio, Roma, Armando editore, 1975.
Tcheng, Ki-tong, Le Théatre des Chinois, Paris, Calmann Levy Editeur, II ed., 1886.
Tchou Mamo M. e Morando S., Il Teatro Cinese Antico e Moderno, in «Sipario», anno XII, n. 140, Dic. 1957.
Verdone M., Realtà e Leggenda di Maria Signorelli, in «Sipario – UNIMA», luglio-ottobre, n. 2, 1994.
Sitografia
http://www.collezionemariasignorelli.it