di Virginia Sica
I due convegni dedicati a Mishima, tenutisi a Berlino e a Bologna nel corso del 2010, sono stati per me occasione di condividere alcune riflessioni sull’apprezzamento che il teatro di Mishima continua tutt’oggi a riscuotere, in particolare sulla scena italiana, con riletture e sperimentazioni, teatrali e musicali, sempre nuove e suggestive. [1]
Personalmente condivido quanto scrive Laurance Kominz [2]: che la produzione teatrale di Mishima è stata a lungo sottovalutata in occidente, nonostante egli possa essere annoverato a buon diritto fra gli autori più rappresentativi e innovativi del teatro giapponese post-bellico, e che questo è dovuto principalmente alla noncuranza verso il tema dimostrata dai suoi pur accreditati biografi non giapponesi. Unico fra i critici mondiali, Kominz si spinge a definire Mishima “uomo di teatro”, considerando la quantità e qualità dell’opera teatrale dell’Autore. Una valutazione che sposo con convinzione e che, tuttavia, mi pare di poter estendere anche a un certo numero di opere genuinamente letterarie. In senso molto più ampio, potremmo dunque definirlo “uomo di scena”, prova ne è che, come per nessun altro romanziere giapponese, tanti suoi lavori hanno conosciuto edizioni per il cinema e per la televisione; basti citare qui Ai no kawaki (Sete d’amore, 1950, versione filmica di Kurahara Koreyoshi, 1966), Shiosai (Il suono delle onde, 1954, versione filmica di Taniguchi Senkichi, 1957), Kinkakuji (Il tempio del Padiglione d’oro, 1956, versione filmica di Ichikawa Kon dal titolo Enjō [Incendio], 1958), Bitoku no yoromeki (Una virtù vacillante, 1957, versione filmica di Nakahira Kō, 1957, e lo sceneggiato televisivo della NHK del 1993); Nikutai no gakkō (La scuola della carne, 1963, versione filmicadi Benoît Jacquot L’École de la chair, 1999, con Isabelle Huppert); Haru no yuki (Neve di primavera, 1966, film di Yukisada Isao 2006); fino al recente sceneggiato Rokumeikan (Il Palazzo del bramito dei daini) basato sull’omonima pièce teatrale del 1956 e prodotto nel 2008 dalla Asahi TV per la regia di Fujita Meiji, che tanto interesse ha suscitato presso il pubblico giapponese.
Ma anche se circoscrivessimo l’analisi alle sole opere destinate ai palcoscenici teatrali, sappiamo che esse hanno tradotto una pulsione insopprimibile dello scrittore. Oltre a dedicarsi con continuità alla produzione teatrale, egli volle trattare il tema scrittore-drammaturgia, denunciando le oggettive difficoltà a destinare il meritato spazio alle opere da scena, tant’è che scrisse il saggio titolato Nihon no shōsetsuka wa naze gikyoku o kakanai ka (Perché i romanzieri non scrivono teatro?) [3]. Qui, enumerate tutte le ragioni di disincentivo create dagli interessi del mondo affaristico gravitante intorno al teatro, l’artista concludeva che solo un forte legame intimo e una grande passione potevano far superare questi ostacoli; ed esemplificò l’idea definendo il teatro la sua Padrona, e la prosa letteraria come Moglie [4].
Forse il teatro si poneva su un piano più intimo perché, in Gikyoku no yūwaku (La tentazione della drammaturgia, 1955) affermò:
«Ho cominciato a scrivere teatro come fa l’acqua di una cascata. In me, la topografia della drammaturgia sembra collocarsi ben più a valle della narrativa. In un luogo più istintuale, affine alle recite dell’infanzia [5]. »
Tant’è che uno dei quattro “fiumi” in cui era suddivisa l’ultima mostra del novembre 1970 al Tōbu department store di Ikebukuro a Tōkyō fu quello del teatro (butai), insieme con lettere (shomotsu), corpo (nikutai), azione (kōdō).
Nel Giappone degli anni ‘50 e ’60, oltre che come fine romanziere, egli ebbe ampia fama come autore e promotore di teatro, in tante declinazioni, dal kabuki alla drammaturgia di ispirazione europea, con sceneggiature di pièces, dramma radiofonici, libretti di opera, e allestimenti scenografici e coreografici per dramma musicali e danza (classica e sperimentale), con grande riscontro di critica e pubblico. Prova ne è che, nel corso dei decenni, molte delle sue creazioni teatrali conseguirono premi letterari di grande spessore e che, anche dopo la sua morte, tante sue opere hanno continuato ad andare in scena nei teatri giapponesi; basti ricordare che, solo per il X e il XX anniversario della sua morte (1980, 1990), in Giappone ne furono prodotte rispettivamente ben sette e nove. E fra quelle del 1990, porrei in evidenza Iwashiuri koi no hikiami (Il venditore di sardine, la rete dell’amore, 1954), riallestita dai Maestri Bandō Tamasaburō e Nakamura Kankurō, che hanno così restituito al kabuki un’opera dimenticata da lungo tempo. Opera evidentemente tanto apprezzata dagli stessi Tamasaburō e Kankurō da essere selezionata per lo shūmei di Kankurō [6] nel 2005, ed essere poi inclusa nel programma Kabukiza sayonara kōen (Arrivederci Kabukiza, gennaio-aprile 2009), tenutosi immediatamente prima della chiusura – per lavori di ristrutturazione – del Kabukiza in Tōkyō, ancora con Kanzaburō nei panni del venditore di sardine Sarugenji e Tamasaburō nel ruolo onnagata della Principessa Hotarubi.
Inoltre, nel 1995 una commissione di critici e intellettuali giapponesi ha proclamato Sado kōshaku fujin (La Marchesa de Sade, 1965) la migliore opera teatrale giapponese dal dopoguerra.
Sin dalla seconda metà degli anni ’80, anche l’ambiente del teatro e della musica europei ha risposto al messaggio lasciatogli in eredità dallo scrittore, entusiasmandosi a sempre nuove letture e riscritture delle sue opere. Un processo forse circoscritto ad ambiti colti, giacché nella coscienza del pubblico di massa persiste in parallelo l’univoco e obsoleto ritratto dello Scrittore come anacronistico ideologo nazionalista, ispirato a destre politiche.
Aoi no ue e Hanjo
Aoi no ue (La Principessa Aoi, 1954) e Hanjo (Hanjo, 1955) sono le opere teatrali giapponesi più allestite al mondo. Come noto, esse furono incluse nell’antologia Kindai nōgakushū (Cinque nō moderni), tradotta in inglese da Donald Keene sin dal 1957 e nel 1958 in tedesco, stesso anno in cui le due pièces videro un trionfale tour teatrale in Germania.
La Germania sembra essere una delle piazze più stimolanti per i grandi artisti internazionali che si cimentano in riletture del teatro mishimiano. Prova ne è Oida Yoshi [7] che, nel 1997, presentò a Berlino la propria edizione di Hanjo, in cui confluivano elementi di teatro nō e teatro contemporaneo. L’evento faceva seguito all’allestimento di una Madame de Sade, presentata dallo stesso Oida ad Amburgo l’anno precedente.
Sui palcoscenici italiani, Aoi e Hanjo hanno avuto particolare risalto a fare inizio dal gennaio 1987, quando il regista Sandro Sequi, accorpando le due piéces a Huis clos (Jean-Paul Sartre, 1943), presentava a Napoli A porte chiuse. Da Sartre a Mishima; contestualmente si teneva il convegno Sartre-Mishima: affinità e dissonanze presso Le Grenoble Institut Français de Naples. Il mese successivo fu il turno di Milano, nella versione di Ida Kuniaki Mishima. Due Nō moderni; e ancora, nel maggio 1994 al Teatro Nuovo, Napoli ebbe l’occasione di assistere al progetto Dalla parte degli dèi, che riproponeva gli scatti di Barakei ( Espiazione con le rose) del fotografo Hosoe Eikō [8], la proiezione di cinque film tratti da opere dell’Autore e l’allestimento teatrale di Aoi e Hanjo per la regia di Tito Piscitelli [9].
Piscitelli si era avvicinato a Mishima da giovanissimo, ancora studente universitario; e ancor prima che come romanziere, lo aveva conosciuto come autore di teatro, proprio con Aoi e Hanjo. Per un ragazzo così giovane l’amore romantico ha di certo un forte richiamo, e le due piéces rappresentarono il biglietto da visita per una familiarizzazione con lo scrittore giapponese. Intrapresa poi la lettura della prosa letteraria dello scrittore, la propria sensibilità permise a Piscitelli di non lasciarsi travolgere dalla fama un po’ scontata di Kamen no kokuhaku (Confessioni di una maschera, 1949) e a preferire un’opera considerata abitualmente “minore”, Sete d’amore, il cui sapiente ritratto psicologico dell’omicida Setsuko concretizza un perfetto equilibrio fra il romanzo puro e le atmosfere e i tagli di un dramma teatrale.
Fu proprio la cifra teatrale di Mishima a spingere il giovane Piscitelli a proseguire nella sua ricerca. E presto scoprì che, nonostante la definizione nōgakushū, Aoi e Hanjo erano stilisticamente meno connessi al nō tradizionale (con l’inserimento di vari elementi tecnologici, quali il telefono o il treno) di quanto non lo fosse Waga tomo Hittorā (Il mio amico Hitler, 1968).
Tito Piscitelli e la sfida di Hitler
Piscitelli decise quindi di allestire Hitler, conscio del messaggio di ambiguità che il solo titolo dell’opera avrebbe suscitato nel pubblico, così come già trenta anni prima era stato negli intendimenti provocatori di Mishima. Il dramma, invece, come risaputo, prende spunto dagli esemplari “mostri” dell’umanità, porta alla luce il loro soffocato tratto umano, ne denuncia la fragilità delle passioni intime, così come accade per Ernst Röhm e Hitler.
Hitler fu messo in scena a Napoli, Roma e in Sardegna per la produzione del Teatro Nuovo e per ben due stagioni (‘95/’96 e ‘96/’97), sulla traduzione in italiano di Lydia Origlia.
Per l’allestimento, Piscitelli volle una vetrata in policarbonato, su cui campeggiava una mappa di Berlino animata da piccole luci che, di volta in volta, si componevano in profili di cervi e di una foresta pietrificata. In scena, una poltrona: come nel nō classico, uno degli attori era in piedi, l’altro seduto. Il personaggio di Hitler scomposto in due, maschio e femmina, nel contrasto e accostamento dell’elemento pragmatico maschile e quello seduttivo femminile. Röhm in divisa militare, Hitler in queue de morue, doppia, sia per l’elemento maschile che per quello femminile. Di tanto in tanto si aprivano siparietti dal sapore brechtiano, con fisarmonica e controtenore. Ogni riferimento, del copione e delle atmosfere, doveva indicare allo spettatore che, nel dissidio tra disagio del reale e bisogno di trasformare fantasticamente la propria condizione umana, l’arte è il solo strumento per rendere tangibile un mondo “dalla parte degli dei”.
Salvo l’intuizione di Piscitelli, il mondo del teatro sembra aver confinato Hitler nell’oblio – benché sia fra le opere teatrali più intriganti di Mishima – forse timoroso di un equivoco ideologico.
Lirica e tragedia
Diverso destino fu riservato ad Hanjo che, evadendo dall’ambito drammaturgico, è stato fonte di ispirazione anche per la musica operistica: nel giugno 1994, per il festival Maggio Musicale Fiorentino, il regista Robert Wilson ne presentava un’edizione per soprano, contralto e basso in lingua italiana su libretto e musica di Marcello Panni [ 10] .
Ed è del settembre 2009 l’applauditissima prima nazionale tenutasi a Milano per il festival internazionale MITO SettembreMusica, su musica e libretto di Hosokawa Toshio e direzione d’orchestra di Johannes Debus, un atto unico per soprano, mezzosoprano e baritono [11].
L’opera di Hosokawa era già stata presentata al pubblico europeo nel luglio 2004, al festival Aix-en-Provence, con la direzione musicale di Ōno Kazushi [12], e per essa Hosokawa sperimentava formulazioni di diversa provenienza.
Scrisse infatti: «Voglio che questa mia nuova opera sia diversa da quelle prodotte da altri occidentali, e che sia legata al teatro giapponese tradizionale del nō e del kabuki. Al contempo, vorrei fosse un’opera che riecheggi in un pubblico contemporaneo e che superi i limiti della capacità espressiva del nō o del kabuki. Stante questo proposito, mi è stato necessario studiare le tradizioni dell’operistica occidentale […] Sia la versione di Mishima che la mia, per quanto basate sulla tradizione giapponese, superano questi limiti, e per quanto facciano il miglior uso delle metodologie del teatro occidentale, danno nuova linfa a materiali vecchi in forma moderna.» [13].
Se Aoi e Hanjo sono ormai noti al pubblico internazionale, meno risonanza ha avuto Nettaiju (L’albero dei Tropici), scritto per la compagnia teatrale Bungakuza nel 1959. Pur calata in contesto giapponese, l’opera (che si snoda sul tema dell’incesto e della morte) è un adattamento della Oresteia di Eschilo, di cui rispetta i canoni formali della tragedia greca. È ancora Kominz a sottolineare la rilevanza di quest’opera nella ricerca teatrale di Mishima, perché essa rappresenta una netta deviazione dell’Autore nella concezione di shingeki (Nuovo teatro), inteso come coefficiente di mediazione con la tragedia classica [ 14].
Un aspetto forse rilevato anche da Mihara Eiji – cresciuto alla scuola di Maurice Béjart – che ha messo in scena L’albero dei Tropici nel 1992, 1994, 1999 e nel 2001 [15], per poi lasciarsi conquistare dalle tematiche omoerotiche (e post-belliche) di Kinjiki (Colori proibiti, 1953) [16].
Sado kōshaku fujin parla ogni lingua
È noto come Sado kōshaku fujin (La Marchesa de Sade) di Mishima sia universalmente riconosciuto come lo shingeki più ricercato di tutto il panorama giapponese. Una qualità data dal testo, basato sulla forza della parola, e il minimalismo dell’azione scenica.
L’opera, lo stesso Mishima lo dichiarò, è un racconto corale dell’ottica femminile. Di là dal giudizio stilistico (del linguaggio e della regia suggerita dall’Autore), personalmente ne apprezzo la modernità del tema del femminile (orchestrato su timbri ben lontani da una presunta misoginia, ipotesi che respingo con ogni forza e di cui ho trattato in altre occasioni). Ma ancor di più ne apprezzo l’attualità che parla a noi lettori e spettatori del terzo millennio, ansiosi, come M.me de Sade, di preservare il fantastico interiore per respingere l’orrore della realtà.
In quest’opera, ognuno dei personaggi rappresenta le pulsioni umane (sensualità, erotismo, ipocrisia) o i fondamenti sociali (legge, morale, religione, il comune senso popolare) tutti ruotanti intorno al personaggio di M.me de Sade (devozione), “similmente al moto dei pianeti”, così come Mishima stesso esplicita [17]. Il personaggio chiave, il Marchese, non appare mai, e tutto il dialogo serrato è come una sessione psichiatrica volta a comprendere chi egli sia davvero, in un gioco di specchi rifrangenti che rimandano immagini moltiplicate e quindi disorientanti. Al centro della scena, la Marchesa, irremovibile nella proiezione del ricordo e dei suoi desideri, e incapace di accettare, fino alla fine, la cruda realtà.
Per Ingmar Bergman La Marchesa de Sade rappresentò un testo privilegiato, e qualche critico si è spinto a sostenere che con essa Bergman ha raggiunto i vertici della propria maestria artistica. Markisinnan de Sade in versione teatrale con The Royal Dramatic Theater of Sweden fu allestita inizialmente a Stockholm nell’aprile 1989, per poi proseguire un tour internazionale, durato sei anni, che avrebbe toccato anche Tōkyō nel 1991 [18].
La scena, realizzata da Charles Koroly, era incorniciata da colonne lignee che moltiplicavano i suggerimenti culturali: dalle atmosfere giapponesi, a quelle neo-classiche a quelle della Magna Graecia. I colori di scena differenziavano ogni singolo atto: i toni del rosa e dell’arancio per il primo, del rosso sanguigno per il secondo, sfumature di grigi e neri per il terzo.
Lo scrittore e critico letterario svedese Kristoffer Leandoer descrisse la coreografia come “un fuoco appiccato, che divampa e non lascia altro che ceneri”. Lo studio della gestualità delle sei protagoniste richiamava atmosfere letterarie lontane fra loro, nel tempo e nello spazio, sovrapposte in perfetto equilibrio: i rarefatti racconti del Genji monogatari e la decadenza di Les liaisons dangereuses.
La passione per quest’opera suggerì al Maestro Bergman una variante per la televisione [19]. Il film vinse poi il Sole d’Oro dell’VIII Premio Riccione TTVV (1993) [20].
Tuttavia, la Svezia non era nuova alle opere teatrali di Mishima, né la Markisinnan de Sade di Bergman era la prima produzione nel Paese: nel 1959, infatti, la Dramaten aveva messo in scena parte dei nōgaku dell’Autore e, già nel 1970, il Teatro svedese di Helsinki aveva ospitato la Dramaten con una versione di Markisinnan de Sade.
La Marchesa ha continuato a popolare le emozioni dei Maestri di teatro internazionale fino alle edizioni più recenti: quella per il Festival BeneventoCittàSpettacolo (2006), con l’attrice Gea Martire e per la regia di Nadia Baldi (photo 20); l’edizione di Michael Grandage della primavera 2009, al Wyndham’s Theatre di Londra, con Judi Dench nel ruolo di Madame de Montreuil, fino al recentissimo allestimento di Piero Ferrarini, in prima nazionale al Teatro Dehon in occasione del convegno.
Lo spettacolo di Grandage si è distinto per l’equilibrio reso al ritmo linguistico di testo e recitazione, con interessanti soluzioni acustiche. In quanto ai rari rimandi al Giappone, sono stati travolti da una scena troppo francese, con un boudoir di specchi argentati opacizzati e proiezioni di immagini mobili sulla superficie riflettente. Questa produzione ha generato un’accesa querelle su giornali e blog informatici, che ha diviso critici e pubblico in aspri detrattori ed estimatori. Tuttavia, com’è consuetudine da mezzo secolo nel destino di Mishima, più che focalizzarsi sull’attualità del testo e le soluzioni innovative di rilettura, i giudizi tendono ancora a confondere la personalità e le convinzioni dei personaggi con quelle dell’Autore e, ancora e ancora, muovono accuse di misoginia, nell’ansia di un “femminismo” che suoni politicamente corretto.
Tuttavia, sono fermamente convinta che nessun allestimento fu mai più singolare di quello realizzato da Ferdinando Bruni, fondatore del Teatro dell’Elfo in Milano, con la sua Madame De Sade, Milano 1996 e stagioni successive.
Su un palcoscenico spoglio, austero, si muovevano le sei coprotagoniste del dramma, la superba attrice Ida Marinelli nel ruolo della Marchesa, e sua madre, Signora de Montreuil, in una più tarda stagione teatrale incarnata dallo stesso Bruni. Il timbro stilistico scelto per il personaggio di Bruni fu quello ectoplasmatico del teatro nō, ma non si trattò di una scelta arbitraria o stravolgente l’opera di Mishima; fu, piuttosto, il risultato di una sofisticata ricerca sugli elementi del nō e del kabuki che più stimolarono Mishima negli adattamenti teatrali da lui stesso messi in scena.
Bruni approdò a M.me de Sade perché stava lavorando ad un teatro che avesse come protagonista il mondo femminile, e l’aspetto che più lo intrigò della pièce di Mishima era l’azione che si esprimeva in uno spazio chiuso, contenitore unico di tutte queste dinamiche femminili. Sin dalla prima lettura del testo, lo colpì il timbro linguistico, che presenta un’osmosi fra linguaggio formale giapponese e settecento francese. Bruni si propose una sfida: dare concretezza ad un Mishima che fosse elemento di mediazione fra il teatro giapponese e il teatro francese del ‘700.
Per ottenere questo risultato elaborò coreograficamente la pittura francese del ‘700 e studiò la gestualità del teatro francese d’epoca e del teatro nō, a cui aveva prestato interesse già in passato e che sapeva essere una delle passioni di Mishima.
Decise così di interpretare lui stesso M.me de Montreil (che per Bruni costituisce la vera prima donna dell’opera).
I testi in traduzione disponibili erano italiano e francese. Bruni privilegiò quello francese, sostituendo tuttavia alcuni lemmi con sinonimi in endecasillabi per dare maggiore musicalità al testo e suggerire una maggiore ambientazione settecentesca, molto evidente nel testo originale in giapponese.
Per le sonorità si preferirono timbri sperimentali, piuttosto che musica giapponese. Sul palco furono impiantati dei sensori; ad ogni apertura delle porte scorrevoli, il sensore faceva scattare un suono.
Il riferimento al Giappone si limitò alla tecnica mimica di M.me de Montrail, attinta al nō e al trucco su volto maschile. In particolare nella seconda stagione teatrale, il costume di M.me de Montreil fu copiato dal teatro nō. Bruni considera Mishima autore modernissimo, il meno giapponese di ogni altro, vero ponte metaculturale. Nello specifico di M.me de Sade, l’opera è per Bruni una moderna lettura, dai risvolti inattesi, dell’Uomo e della Storia: parla dell’altro come nostra invenzione e ha come obiettivo la tutela del mito e la consegna di esso alla Storia.
Il ricorso ad attori maschi in parti femminili non è stata una soluzione estemporanea del solo Bruni, se ancora nell’autunno 2008 Sasai Eisuke ha portato in tour (toccando Tōkyō, Nagoya, Ōsaka, Matsumoto, Kanazawa, Toyama, Niigata, Mito) la sua Sado kōshaku fujin, per la regia di Suzuki Katsuhide e con la Hanagumishibai. La Compagnia, nata nel 1987, si autodefinisce Shinkabuki, Scuola del neo-kabuki. Costituita da soli uomini che interpretano parti femminili per repertori non attinenti al kabuki classico, lontani dal modello estetico e formale dello onnagata, la Shinkabuki denuncia un elitarismo del kabuki originale e propone una ricerca ibrida, arricchita da interferenze musicali internazionali.
Musica sinfonica e danza
Evadendo dalla stretta produzione teatrale di Mishima, anche la musica sinfonica e la danza hanno attinto dai capisaldi della narrativa dello scrittore. Così fu per il compositore Mayuzumi Toshirō (1929-1997, vincitore del Suntory Music Award nel 1996), che combinava strumenti e tecniche occidentali con la tradizione della musica autoctona, e considerato impareggiabile maestro di sperimentazione ed ecletticismo. Mayuzumi aveva inaugurato la sua carriera e la ricerca con un entusiastico interesse verso la musica europea di avanguardia (in particolare focalizzandosi su Edgard Victor Achille Varèse, 1883-1965); tuttavia, a partire dal 1957, si dedicò al panasiatismo musicale, divenendo progressivamente critico dell’ “occidentalizzazione” del Giappone e enfatizzando l’identità culturale nipponica [21]. Egli nel 1976 compose l’opera Kinkakuji, ispirandosi all’omonimo romanzo di Mishima.
E a Berlino, ampia risonanza ha avuto l’opera teatrale in musica Das verratene Meer (Il mare tradito, ispirata a Gogo no eik ō [ Salpando nel pomeriggio, 1963, noto in Italia per lo più con il titolo Il sapore della gloria]), nata dall’azione congiunta del compositore e del poeta Hans Ulrich Treichel.
L’opera di Henze – che risiede da lunghi anni in Italia – è il prodotto di una storia artistica singolare. Composta nel 1988 per la Deutsche Oper Berlin su libretto in tedesco, fu rappresentata per la prima volta nel 1990. Dodici anni più tardi, Henze decise di ricondurre l’opera alle sue origini, commissionando una traduzione del libretto dal tedesco in giapponese – caso rarissimo per un musicista europeo – con una successiva estensione di venti minuti della sinfonia.
Una sperimentazione che ha del sorprendente, considerando la diversità espressiva delle due lingue. In questa versione, il lavoro fu presentato in prima assoluta concertistica al Suntory Hall di Tōkyō nel 2003. Nel 2006 un’edizione ulteriormente ampliata con la collaborazione di Gerd Albrecht fu eseguita in forma di concerto dall’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI a Salisburgo, Berlino e Torino, per la direzione di Albrecht. [22]
Nelle parole di Henze:
«Ho letto tutti i libri di Mishima con crescente interesse e ammirazione. In Gogo no eikō ho trovato una specie di stilizzazione del teatro barocco francese. Già leggendo il romanzo per la prima volta mi avevano attratto eleganza e naturalezza della forma: mi sembrava ideale per essere musicato perché i contrasti sono molto forti e invitano il compositore a creare sonorità simili (robuste e tenere) adatte al teatro. La traduzione del libretto in giapponese è stata fatta da un mio ex-studente, Toshiro Saruya. Non so se il suo lavoro sia buono o no perché non so il giapponese. L’unica cosa che posso dire è che il suono prodotto dai cantanti (giapponesi e coreani) è bello e si fonde con gli strumenti in maniera meravigliosa, molto commovente. Volendo, in questo dramma in musica si puòleggere l’orchestra come un terzo elemento. C’è una parte femminile in forte contrasto con quella maschile, mentre la musica rappresenta il mare misterioso, pericoloso. In alcuni dei miei lavori teatrali i personaggi principali hanno uno strumento o un gruppo di strumenti eletti come fedeli accompagnatori. Ma in Gogo no eikō l’orchestra è omnipresente e rappresenta, come ho detto, il mare. Ciò non esclude la presenza di strutture tradizionali per aiutare il pubblico a seguire meglio l’andirivieni di anima e corpo».[23]
Le atmosfere e i temi introspettivi, così frequenti in tanta letteratura di Mishima, non potevano eludere l’interesse della danza butō [ 24]. Antesignani assoluti furono il coreografo Hijikata Tatsumi (1928-1986) e il giovanissimo Ōno Yoshito (n. 1938), figlio del mitico danzatore Ōno Kazuo (1906-2009) che, nel maggio 1959, misero in scena Kinjiki (Colori proibiti). Una versione rivisitata fu poi proposta qualche mese dopo al festival giapponese di danza 650 Experience no kai, ma non fu propriamente apprezzata. Lo spettacolo si ispirava all’omonimo romanzo di Mishima che, come noto, si snoda negli ambienti omosessuali del dopoguerra. Il tema e le forme espressive della performance, ebbero un impatto tanto forte su critica e pubblico che la direzione del teatro spense le luci a metà dello spettacolo, facendo piombare la scena nel buio. Agli autori toccò il bando dal festival e l’accusa di iconoclastia. L’anno scorso è stato il 50° anniversario di quell’evento. Pur non avendo più a disposizione materiale filmico della performance del 1959, Ōno Yoshito, accompagnato dalla danzatrice Kohara Akiko, ha ricostruito la danza originale di Kinjiki presso lo BankART Studio NYK di Yokohama.
Fin qui una veloce esplorazione degli allestimenti e delle tecniche sperimentali più intriganti che hanno tradotto l’opera di Mishima.
Si pone ora una domanda: per quale ragione Mishima calca ancora i palcoscenici?
Perché si colloca esattamente al centro fra lo studio di un teatro rigorosamente nipponico e una universalità senza tempo.
Quanto attiene alla ricerca sul teatro giapponese (come evidenzia Kominz), ebbe come obiettivo creare shingeki e kabuki puri (che fossero opere scritte da lui stesso o da lui solo dirette), disinteressato alle sperimentazioni dell’avanguardia del periodo post-bellico, protesa ad una libertà d’espressione e indirizzata a mescolare stili scenografici e linguistici [25]. Per il suo progetto, Mishima adottò una grafica di scena e timbri linguistici che nessun altro autore fu in grado quanto lui di maneggiare, tenendoli ben distinti fra loro e contestualizzandoli nel genere e nell’epoca: per il kabuki, per lo shingeki di contesto giapponese, per lo shingeki di ambientazione europea. Una qualità palese anche in ogni suo romanzo o racconto. A suo vantaggio il fatto che egli era uno scrittore che applicava al teatro le sue complesse tecniche narrative, non un autore di teatro tout court.
La sua universalità atemporale, proposta in un telaio non ibrido, formale e collaudato dalla tradizione, sta dunque nelle tematiche: parlare dei tabù, dei codici sociali e dei valori morali, come in una pulsione provocatoria, e poi sezionarli, rigirarli sotto lo sguardo, astenersi dal giudizio morale e sottolineare la complessità e fragilità dell’Uomo. Una scelta coraggiosa, perché controcorrente rispetto ai tempi in cui l’Autore produceva il suo teatro, tempi invasi da un teatro di sinistra, sociale, politico, di strada, che si inseriva nelle grandi ondate anche modaiole, specchio di una circoscritta fase storica.
In tal senso, l’opera di Mishima non richiama un teatro classico giapponese e l’interesse dei Maestri internazionali, dunque, non può essere la rivisitazione, venata da curiosità esotiche o da nostalgie tradizionaliste, di una classicità statica. Se Mishima ancora oggi calca i palcoscenici, è perché la sua scrittura teatrale e letteraria ha anticipato istanze e consapevolezze familiari all’uomo contemporaneo [26].
NOTE
[1] Questo saggio è già apparso negli Atti del convegno internazionale MISHIMA! Worldwide Impact and Multi-Cultural Roots, patrocinato da Berlin – Brandenburgische Akademie der Wissenschaften, Freie Universität Berlin e JDZB (Japanisch-Deutsches Zentrum Berlin), Berlino 18-20 marzo 2010, organizzato per il 40° anniversario della morte dello scrittore. In tale occasione, fu presentato un primo studio dal titolo If Mishima still treads the boards. Experimental research in international theatre and music. Gli Atti del convegno, che ha riunito studiosi provenienti da numerosi paesi delle Americhe, Europa e Asia, sono stati pubblicati solo in lingua giapponese: Hijiya-Kirschnereit, Irmela (ed.), Mishima Yukio no chiteki roots to kokusaiteki impact, Shōwadō, Kyōto, 2010; Sica, Virginia, “Konnichi de mo nao Mishima ga butai ni tōjō suru no wa” in ibidem, pp. 79-99. Successivamente il testo è apparso in edizione italiana nel numero monografico di Sipario (marzo 2011, pp. 42-52) dedicato agli Atti del convegno Mishima mon amour: l’uomo, lo scrittore, l’onore, Bologna 26-27 novembre 2010.
[2] Kominz, Laurance, “Introduction” in Kominz L. (ed.), Mishima on Stage. The Black Lizard & Other Plays, The University of Michigan, Ann Arbor, 2007, p. 1.
[3] Apparso per la prima volta sul numero titolato Engeki della testata Hyōronzuihitsu , novembre 1951, e poi riproposto più volte altrove.
[4] Keene, Donald, “Foreword. Mishima’s Kabuki Plays”, in Kominz Laurance, cit., p. viii.
[5] Cit. in Sato Hiroaki, My Friend Hitler & Other Plays of Yukio Mishima, Columbia University Press, New York, 2002, p. viii.
[6] Shūmei è il rituale di trasmissione del nome artistico ufficiale e dinastico, da maestro a discepolo. Dal 2005 Kankurō ha assunto il nome di Nakamura Kanzaburō XVIII.
[7] Attore di teatro e cinema, direttore artistico, autore, Chevalier (1992) and Officier de l’Ordre des Arts et des Lettres (2007), cresciuto dal 1968 alla scuola di Peter Brook.
[8] Il reportage fotografico di Hosoe, che vedeva Mishima soggetto privilegiato, era stato parte integrante della mostra del novembre 1970 al Tōbu department store. Per l’occasione era stato pubblicato l’omonimo volume fotografico, con prefazione dello scrittore, subito censurato (benché stampato in edizione limitata) perché ritenuto offensivo della sensibilità pubblica, dati gli espliciti riferimenti all’omosessualità. Il volume fu poi riedito nel 1984 dalla Shūeisha di Tōkyō.
[9] Contestualmente fu pubblicato il volumetto Mishima. Dalla parte degli Dei – Un’idea di Tito Piscitelli, I.U.O., Napoli, 1994, a cura di Maria Chiara Migliore.
[10] La performance ebbe luogo a Firenze, presso il Teatro della Pergola.
[11] Al Piccolo Teatro Studio in Milano. Orchestre de chambre de la Monnaie ; Handa Miwako (Hanako), soprano; Fredrika Brillembourg (Jitsuko), mezzosoprano; Komori Teruhiko (Yoshio), baritono; Luca Veggetti, azione scenica e regia; Yoshida Moe, creazione pittorica; basato sulla traduzione in inglese di Donald Keene. Un tour è inoltre programmato fra Bruxelles e Amsterdam in aprile e maggio 2011.
[12] Théàtre du Jeu de Paume, mise en scène by Anne Teresa de Keersmaeker.
[13] http://www.schott-music.com/shop/products/show,215667,,f.html.
14]Kominz, Laurance, cit., p. 34.
[15] 1992 and 1994, London, Theatre Soleil Levant ; 1999, London, The Garage Theatre; 2001, London, Lyric Studio and Lyric Hammersmith Theatre.
[16] 2002, Montreux, Théâtre du Vieux-Quartier (TVQ).
[17] Kominz, Laurance, cit., p. 42.
[18] Personaggi ed interpreti: M.me Renée de Sade (Stina Ekblad); sua madre, Signora de Montreuil (Anita Bjork); Anne-Prospère, sorella minore di Renée (Elin Klinga), la Contessa de Saint-Fond (Agneta Ekmanner); la Baronessa de Simiane (Margaretha Bystrom); la serva Charlotte (Helena Brodin).
[19]The Marquise De Sade(Markisinnan de Sade), Sweden 1992.
[20] La giuria espresse così le proprie motivazioni: “La giuria assegna il Sole d’Oroa lngmar Bergman per la sua trasposizione in video di The Marquise De Sade di Yukio Mishima. Non per rendere omaggio a un maestro, ma al contrario perché colpita dalla sensibilità modernissima con cui Bergman indaga il mezzo ‘video’ e da come, grazie a questa indagine, il testo riesca a guadagnare forza e nitore. Diversamente da tanti tentativi di trasposizione di opere teatrali in video compiuti da registi più giovani in The Marquise De SadeBergman sa ripensare precisamente lo spazio della rappresentazione per la scena televisiva, e ne accetta e ne esalta la virtualità attraverso le inquadrature, i colori, i movimenti della camera, gli effetti elettronici (di cui non abusa, ma che rende espressivi e emozionanti). Il video non é nè la riproduzione nè l’amplificazione dello spettacolo, ma un’opera autonoma clonata dalla messa in scena con una rigorosa consapevolezza degli strumenti espressivi in campo (teatro, cinema, elettronica) e insieme con una spudorata libertà di immaginazione poetica.”.
[21] Per una lettura di approfondimento vedasi Kanazawa, Masakata, “Mayuzumi, Toshirō” in S. Sadie and J. Tyrrell (eds), The New Grove Dictionary of Music and Musicians, Macmillan, London, 2001.
[22] L’opera ha poi inaugurato – per la prima volta in Italia in forma scenica in lingua giapponese – la 53° edizione del Festival dei Due Mondi, apertasi il 18 giugno 2010 al Teatro Nuovo di Spoleto, con la regia di Giorgio Ferrara (direttore artistico della kermesse) e la direzione di Johannes Debus,Orchestra sinfonica “Giuseppe Verdi” di Milano.
[23] Cit. in Gasponi, Alfredo, “Musica del ‘senatore’ per Mishima: il ‘ragazzo’ dirige Mahler e Bernstein”, Il Messaggero, 14 giugno 2010.
[24] Ankoku butō, comunemente abbreviato in butō, letteralmente significa “danza camminata”, derivando da bu (danza) e tō (piedi).
[25] Kominz, Laurance, cit., pp. 4-5.
[26] Ringrazio il Maestro Ferdinando Bruni per il tempo concesso, il prezioso e inedito materiale fotografico di scena, la disponibilità che sempre mi riserva sin dal primo incontro; l’amica Ida Marinelli, per le ore impagabili che trascorriamo insieme a parlare di letteratura, di teatro, della sua Renée de Sade, del mio Mishima; il regista Tito Piscitelli, per avermi testimoniato con amabilità che il teatro, oltre che essere un appagamento intellettuale, può restituire dignità ai bambini di strada delle metropoli del mondo.