Il kabuki è teatro d’attore. Tutto lo spettacolo ruota attorno alla sua performance. Egli è il motore dello spettacolo: ogni espediente scenografico, ogni trucco utilizzato è creato per esaltare le sue capacità, il suo ruolo, il suo carisma.
Gli attori a Edo.
Per tutta la storia del kabuki nel periodo Edo (1603-1868) la figura dell’attore si trovò in una scomoda quanto curiosa duplice posizione. Dal punto di vista ufficiale l’attore era posto dal bakufu Tokugawa (che considerava il kabuki un male da estirpare) sul gradino più infimo della scala sociale, al di sotto del mercante, leggermente sopra agli hinin (i fuoricasta).[1] All’attore veniva applicata la legge di regolamentazione della mendicità (gli attori del kabuki, infatti, piuttosto che yakusha, attore, venivano chiamati kawarakojiki, cioè mendicanti o kawaramono cioè, letteralmente, ”persone del fiume”[2] e ancora verso il 1840 nei documenti gli attori venivano contati con il suffisso numerale hiki, usato per i piccoli animali. Senza contare che, almeno agli inizi della storia del kabuki, gli attori non potevano vivere al di fuori del quartiere dei teatri e la loro vita era quindi regolata da un sistema di “ghettizzazione”.
Ma, al di là della facciata ufficiale, gli attori attiravano l’ammirazione delle folle che li idolatravano e godevano della protezione di ricchi mercanti e perfino di daimyō. Idoli con una sterminata folla di ammiratori di ogni classe sociale, dal ricco mercante al piccolo commesso di negozio, dallo hatamoto (vassallo diretto dello shōgun) al daimyō, dalla prostituta alla geisha, i grandi attori del kabuki divennero arbiter elegantiarum per le donne che volevano stare al passo con la moda (alle geisha era raccomandato di assistere al kaomise kyōgen, lo spettacolo che dava inizio all’anno del kabuki, per mantenersi al corrente delle novità) e arrivarono a pubblicizzare con i loro nomi vari prodotti, dalla pasta dentifricia al sake, diffondendo così la loro fama fuori dei confini della città. Una fama, la loro, che stava già espandendosi anche grazie alle stampe cosiddette ukiyoe che li ritraevano, dette appunto yakushae, e che, essendo molto economiche, erano davvero alla portata di tutti o quasi: il costo di una stampa era di 20 mon, circa la metà del biglietto più economico per una rappresentazione del kabuki.
Inoltre, gli attori trovavano sempre il modo di sfuggire alla mano lunga della legge Tokugawa, acquistando ville sontuose ma facendole intestare ad agenti prestanome e vivendo, almeno i grandi divi, la raffinata e dispendiosa vita dei daimyō. Una situazione per certi versi analoga a quella vissuta dagli attori in Francia ai tempi di Molière si potrebbe supporre, ma qui l’ammirazione incondizionata del pubblico e l’accanita repressione dei Tokugawa davano al mondo del kabuki, almeno secondo lo studioso Andrew Gerstle, [3] un’aura di ribellione, di libertà dalle strutture della società confuciana con la sua rigida morale.
(brano estratto da: Rossella Marangoni, Specchio di Edo. Il Kanadehon Chūshingura fra ideologia di potere e cultura popolare, 2006)
NOTE
[1] Per una dettagliata descrizione dei tormentati rapporti fra gli attori del kabuki e il governo shogunale si veda il saggio fondamentale di Donald SHIVELY, “Bakufu Versus Kabuki” in Studies in the Institutional History of Early Japan, Princeton, Princeton University Press, 1968 (1° ed. 1955).
[2] Sito d’origine del kabuki, infatti, era considerato il letto (kawara) del fiume Kamo, a Kyōto, tradizionale luogo di rappresentazione di umili intrattenitori e ritrovo dei mendicanti. Qui allestiva i suoi spettacoli la danzatrice Izumo no Okuni, creatrice mitica del kabuki.
[3] Cfr. C. A.GERSTLE, “Flowers of Edo: Kabuki and Its Patrons” in A.C. Gerstle (a cura di) 18th Century Japan. Culture and Society, Richmond, Curzon Press, 2000, p. 38 e 39.