Nella storia del kabuki sono due le aree che ebbero un ruolo fondamentale nel suo sviluppo: Kamigata (area di Kyōto-Ōsaka) e Edo (l’attuale Tōkyō). Ed entrambe svilupparono uno stile interpretativo proprio con una differenziazione che emerse appieno durante il periodo Genroku (1688-1703), un’epoca che vide l’emergere di forti personalità che stabilirono i principali ruoli e kata 型 destinati a diventare dei classici del kabuki.[1]
Il kata è una forma codificata, un modello tramandato verticalmente da una generazione all’altra, presente in numero variabile in ogni espressione artistica giapponese che sia trasmessa attraverso una scuola. I kata stanno alla base della tecnica dell’attore e quindi si può affermare che costituiscono “la base” del kabuki.
In generale, gli studiosi giapponesi concordano nell’individuare tre livelli di kata: il primo è costituito dagli stili di recitazione (danmari, wagoto, aragoto, maruhon e shosagoto), il secondo dalle tecniche interpretative riguardanti il movimento e la voce e il terzo dalle variazioni personali (vale a dire dagli apporti che nel corso del tempo gli attori hanno introdotto nel modo di interpretare i vari ruoli e che sono entrati nella tradizione).
Lo stile danmari, creato all’inizio del periodo Genroku, è costituito da una pantomima che serviva un tempo come pezzo di presentazione di una compagnia al gran completo e pertanto veniva spesso rappresentato durante i kaomise. La scena era quasi sempre notturna, l’accompagnamento musicale languido e i personaggi avanzavano a tentoni sul palcoscenico alla ricerca di un oggetto. La luce della luna o l’alba coglievano gli interpreti bloccati in un tableau vivant chiamato hippari mie. Per apprezzare appieno il potere di suggestione richiesto agli attori nel danmari, occorre sottolineare il fatto che le rappresentazioni, come è stato già ricordato, avvenivano di giorno e che prassi voleva che non si spegnessero le luci in sala, come invece avviene nel caso del teatro occidentale: l’artificiosità dell’ambientazione notturna risulta così ancor più evidente e suggestiva.
Il wagoto è lo stile caratteristico dell’area Kamigata che tende a far emergere la dolcezza, il fascino, la raffinatezza e la seduzione di un personaggio maschile. E’ stato sviluppato dall’attore Sakata Tōjūrō I (1647-1709) durante il periodo Genroku e viene opposto allo stile aragoto nato a Edo. In origine questo stile veniva utilizzato per ritrarre i costumi e le passioni dei quartieri del piacere e, quindi, diede vita a un genere di dramma chiamato keiseikai kyōgen da keisei (cortigiana), che rappresentava la vita di un personaggio amante di una cortigiana del quartiere dei piaceri.
L’aragoto è uno stile di recitazione virile, guerriero ed esagerato, in grado di trasformare per mezzo di una recitazione sopra le righe, un tono di voce amplificato naturalmente per mezzo di una tecnica complessa, costumi sontuosi e sovradimensionati, un trucco particolare (kumadori), enormi parrucche o gigantesche spade, un personaggio in un supereroe. Questo stile antinaturalistico, creato dal celebre attore Ichikawa Danjūrō I (1660-1704) nel 1697, è strettamente connesso al kabuki di Edo e incarna appieno lo spirito dei suoi abitanti, gli Edokko. “Muscoloso”, esagerato, magniloquente, l’aragoto contiene una sfida: Danjūrō spiegava infatti che lo stile “rozzo”si fondava sulla sfida alla classe governante dei samurai e poteva essere recitato solo da attori che non temevano neppure un daimyō.
Il maruhon è uno stile connesso al teatro delle marionette (jōruri) e si è sviluppato agli inizi del XVIII secolo, quando i drammi jōruri iniziarono ad essere adattati per il kabuki. Si trattava quindi di “tradurre” un testo scritto e la relativa notazione musicale da un forma teatrale all’altra, di adattare un testo concepito per i burattini all’espressione fisica degli attori.
E poiché il jōruri prevede un’interazione totale fra i rigidi, stilizzati movimenti delle marionette, il ritmo della narrazione del cantore e l’accompagnamento musicale degli shamisen, interazione che impedisce qualsiasi scarto dalla gestualità rigidamente determinata, nacque nel kabuki un nuovo genere di recitazione derivato da queste esigenze. A differenza dei drammi creati appositamente per il kabuki, nel maruhon è importante la presenza di un commento narrativo cantato da un narratore denominato tayū. Questo commento dilata inevitabilmente i tempi dell’azione degli attori, scandisce lo spettacolo, rendendolo più lento, più solenne. Per il maruhon gli attori crearono una nuova gestualità nata dall’osservazione dei movimenti dei burattini e dal tentativo di riprodurli: furi, è un modo di enfatizzare i gesti della vita quotidiana, una sorta di pantomima sempre accompagnata dalla sua descrizione da parte del cantore, mentre il ningyōmi (corpo della marionetta), usato dagli onnagata, è un modo di riprodurre con il corpo umano i movimenti della marionetta, una tecnica assai apprezzata dal pubblico.
Lo shosagoto è termine generale che comprende tutti gli stili della danza kabuki e anche drammi danzati con trama o senza trama. A volte ha un accompagnamento lirico ed allora l’interprete tenderà a mimare le azioni evocate dal canto (ageburi). L’odori è caratterizzata da movimenti vivaci e da salti atletici. A volte è abbellito dagli scivolamenti dei piedi tipici del nō e detti suriashi.
Tutti i kata di primo livello, cioè gli stili di recitazione sopra citati, possono essere presenti in una stessa rappresentazione per quella “estetica della varietà, del cambiamento” che è fattore fondamentale nelle arti giapponesi e quindi anche nella performance teatrale.
R.M.
NOTE
[1] B. ORTOLANI, Il teatro giapponese, Roma, Bulzoni, p. 207.