Veeragase

La danza del divino guerriero

di Marilia Albanese

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Figura del pantheon hindu meno nota di altre in Occidente, Vīrabhadra occupa un posto notevole nella devozione popolare indiana ed è rappresentato in varie modalità e dimensioni, da colossali statue fino a minuscoli monili d’oro. Particolarmente venerato in Karnataka, in suo onore si tiene a Mysore una spettacolare danza, il Veeragase, eseguita dai Jangam (noti anche come Lingadevaru e Maheśvara), monaci itineranti appartenenti alla comunità dei Liṅgāyat, devoti del dio Śiva, durante varie festività e in particolare nei mesi lunari di Śravaa e di Kārtika, corrispondenti circa a luglio/agosto e ottobre/novembre.

Le vicende narrate attingono al Veeragama, uno dei 28 Āgama –  sacri testi dedicati al dio Śiva -, e ad altre opere in sanscrito e in kannada, la lingua del Karnataka. Nel Veeragase due, quattro o sei membri rappresentano la storia guidati dal cantante narratore, con accompagnamento di cimbali, shehnai (una specie di oboe), sambal (un tamburo a due facce) e altre percussioni. I danzatori hanno vistosi baffi e sulla fronte portano disegnate le tre righe orizzontali bianche dei devoti del dio Śiva, con al centro il terzo occhio. Sul capo inalberano alte tiare sormontate dai cappucci di un cobra policefalo, con lunghe code di pelo di yak che ricadono sulla schiena. Gli abiti sono di colori sgargianti, con profusi ornamenti, tra cui bracciali a forma di cobra, collane di rudrākṣa, “occhi di Śiva”, semi sfaccettati della Elaeocarpus, e una cintura con placche di teschi. Indossano cavigliere e impugnano una spada nella destra e uno scudo nella sinistra oppure un pugnale.

La danza si situa in un ampio contesto rituale, il cui momento centrale è l’offerta nelle case dei Liṅgāyat del devagange, acqua attinta ai pozzi locali che tramite operazioni sacre si trasforma nell’acqua della Gaṅgā, il fiume Gange ritenuto la madre di Vīrabhadra, dato che questi è scaturito dai riccioli di Śiva su cui si adagia Gaṅgā.

Vīrabhadra è una proiezione di Śiva, antichissima e complessa divinità che include in sé aspetti feroci e trasgressivi. I primi riferimenti mitici a Vīrabhadra si trovano nel Mahābhārata, la “Grande contesa dei Bhārata”, oceanico testo epico elaborato tra il IV sec. a.C. e il IV sec. d.C., e vengono ampliati e diversificati nei Purāṇa, le “Antiche Storie”, composti tra il III e il VII d.C., preziosissima fonte per i personaggi e le saghe mitiche.

Dakṣa, sommo sacerdote degli dei, aveva bandito per la figlia prediletta Satī (nota anche come Dākṣāyaṇi, figlia di Dakṣa) un torneo nel quale i pretendenti contendevano per la mano della giovane, che avrebbe scelto il migliore inghirlandandolo, e aveva invitato tutti gli dei tranne Śiva, che disprezzava perché non rispettava le regole di cui Dakṣa, appartenente ai brāhmaṇa, la prima casta depositaria della scienza sacra, era garante.

Satī, innamorata di Śiva, aveva lanciato in aria la ghirlanda rivolgendogli un pensiero ardente e il dio era apparso con il segno del prescelto al collo: Dakṣa aveva dovuto suo malgrado acconsentire al matrimonio, ma aveva dovuto subire un altro affronto quando Śiva, invece di inchinarsi al suocero come dovuto da parte di un  genero, l’aveva benedetto, sottolineando la sua superiorità.

Dakṣa, il cui ego era notevole, si era terribilmente adirato e aveva indetto una grande cerimonia rituale per sottolineare il suo rango invitando tutti gli dei, a eccezione di Śiva. Satī si era recata da sola alla celebrazione, ritenendo di essere ancora la figlia prediletta, ma il padre l’aveva accolta malamente, insultandone lo sposo. La dea aveva maledetto Dakṣa e tutti gli dei, ma non potendo rivolgere la propria collera contro il padre, aveva lasciato che questa la consumasse fino a bruciarla. In effetti Satī era un aspetto della Grande Dea e quindi dotata di eccelsi poteri che le consentivano di decidere quando morire o, meglio, ritornare nell’immanifesto.

Percepita la morte di Satī, Śiva, in preda ad una collera mortifera, aveva gettato a terra una ciocca di capelli e da essa era scaturito Vīrabhadra, un essere terribile che toccava il cielo, nero come le nubi monsoniche, con tre occhi fiammeggianti, la chioma che guizzava selvaggia e una ghirlanda di teschi. Śiva gli aveva ordinato di distruggere il sacrificio di Dakṣa e Vīrabhadra l’aveva fatto con estrema ferocia, decapitando Dakṣa, fracassando gli oggetti sacrificali, contaminando le offerte, insultando i sacerdoti e terrorizzando gli dei. Accompagnava Vīrabhadra la terribile Bhadrākālī, una forma di Kālī, altro aspetto della Grande Dea e sempre consorte di Śiva, rappresentata con tre occhi, zanne, una corona di fiamme e quattro, dodici o diciotto braccia e altrettante armi, così feroce da divertirsi a giocare con la testa mozza di Dakṣa.

Pittura su vetro di Vīrabhadra (collezione Berger, foto di Luca Grasso)

Gli dei atterriti avevano chiesto aiuto a Brahmā, che aveva loro consigliato di cercare la pace con Śiva invitandolo al sacrificio e aveva implorato il terribile dio di perdonare Dakṣa e di ripristinargli la testa, cosa che Śiva aveva fatto ponendo sul collo del suocero quella dell’ariete sacrificale. L’inimicizia fra Dakṣa e Śiva adombra probabilmente un conflitto tra esponenti di diverse concezioni religiose che si risolve con l’accettazione da parte dell’ambito brahmanico di Śiva e dei suoi seguaci. 

Divinità tutelare dei guerrieri, Vīrabhadra fu particolarmente venerato nell’India meridionale durante l’impero di Vijayanagara che fra il XIV e il XVI sec. fu l’ultima gloriosa roccaforte hindu prima della quasi completa conquista musulmana del Paese. Al dio fu dedicato uno splendido tempio a Lepakshi nel 1530.

I molti volti di Vīrabhadra

La più importante collezione al mondo di raffigurazioni di Vīrabhadra è quella milanese di Paola e Giuseppe Berger, che annovera circa 600 pezzi compresi in un arco di tempo fra il XIII e il XX sec. In essa sono illustrate le differenti declinazioni dell’immagine di Vīrabhadra: in forma statuaria, per essere esposto nei templi e quindi di dimensioni notevoli, in granito e legno; come immagine dipinta su carta, stoffa, legno, vetro; per la devozione domestica come idolo collocato su appositi altarini o come figura sbalzata su placche di diversi metalli; e ancora, cesellato su impugnature di spade e pugnali, monili, ciondoli e amuleti.

Formella in pietra con Vīrabhadra a otto braccia e Dakṣa alla destra (collezione Berger, foto di Luca Grasso)

Il dio è quasi sempre affiancato da Dakṣa con la testa di capro e da Satī/Bhadrākālī, la Dea ora in aspetto sereno come Satī, più spesso in forma irata come Bhadrākālī. Benché l’iconografia di Vīrabhadra sia codificata dagli Śilpa Śastra, dai Purāṇa, dagli Āgama e da numerosi altri testi che dettano le regole riferite alle varie produzioni artistiche, le raffigurazioni sulle placche, pur osservando i principali dettami, presentano sottili e interessanti differenze a seconda della provenienza e dell’epoca.

Placca d’argento con Vīrabhadra al centro, Dakṣa alla destra e Satī/Bhadrākālī alla sinistra (collezione Berger, foto di Luca Grasso)

Paola e Giuseppe Berger hanno voluto donare settantadue oggetti della loro collezione – statuette e soprattutto placche in diversa lega – alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano che ore le espone in una collezione permanente unica al mondo. Questa nuova sezione su una cultura tanto lontana quanto affascinante risulta pienamente in linea con gli orizzonti culturali aperti dal Cardinale Federico Borromeo, che fin dalla fondazione della Pinacoteca Ambrosiana aveva guardato ben oltre i confini dell’Europa.

Che siano espressione di arte tribale o opera di cesello di raffinati argentieri, le immagini di Vīrabhadra attestano l’ampia diffusione del culto nei diversi strati della popolazione e soprattutto esprimono un archetipo trasversale a molte culture: la speranza che la collera divina si incarni nel cavaliere vendicatore demandato a sconfiggere l’ingiustizia.

Placca in rame sbalzato con Dakṣa alla destra di Vīrabhadra e sotto la scena della decapitazione (collezione Berger, foto di Luca Grasso)


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