Già dai primi secoli della nostra era l’India aveva indagato il mondo delle emozioni, analizzandone i meccanismi d’insorgenza e catalogandone le conseguenze. Era così giunta a delineare le fasi del processo – soprattutto in vista della sua riproduzione in ambito artistico e in particolar modo teatrale – con notevole acume e in consonanza con molte concezioni della moderna psicologia del profondo. Secondo questa, le modificazioni dell’ambiente esterno o gli impulsi interni innescano precise sensazioni somatiche e reazioni neurovegetative: le emozioni. Se le emozioni persistono, si instaurano gli stati d’animo che possono tramutarsi in sentimenti, fenomeni psichici coscienti dovuti a fattori di ordine culturale, morale, affettivo, intellettuale, che colorano emotivamente le percezioni e influenzano il comportamento.
Secondo la visione indiana nove sono le principali emozioni, bhāva, e da esse scaturiscono altrettanti sentimenti, navarasa; la dinamica del loro insorgere è articolata in una serie di sfumature e risonanze e si dipana lungo un preciso procedere.
Ad innescare le cosiddette “emozioni determinanti”, vibhāva, sono cause concrete, alle quali si affiancano elementi di contorno che fungono da stimolanti e rafforzano gli effetti. Dalle emozioni determinanti derivano le “emozioni conseguenti”, anubhāva, ovvero le reazioni somatiche, volontarie o involontarie (sudore, levarsi della peluria, alterazione della voce, tremito, mutamento del colorito, pianto, svenimento). Parallelamente possono insorgere trentatré “emozioni concomitanti”, vyabhicāribhāva, stati transeunti che concorrono all’instaurarsi del sentimento principale, completandolo e integrandosi in esso. Infine quando tutti gli elementi precedenti si fondono armoniosamente in “emozioni stabili”, emerge uno stato emotivo dominante e duraturo, sthāyibhāva, che diventa un sentimento.
Si hanno così:
* l’emozione erotica, śṛṅgāra, che genera il sentimento dell’amore, rati;
* la disposizione comica, hāsya, che determina l’ilarità, hāsa;
* l’emozione patetica, karuṇa, che sfocia nel dolore, śoka;
* il sentire furioso, raudra, che si esprime nell’ira, krodha;
* il sentire eroico, vīra, che nutre il sentimento del coraggio, utsāha;
* la percezione terrificante, bhayānaka, che si coagula nella paura, bhaya;
* la sensazione repulsiva, bhībatsa, che determina il disgusto, jugupsā;
* la percezione di qualcosa di meraviglioso, adbhuta, che si estrinseca nel sentimento dello stupore, vismaya;
* l’aura della quiete, śanta, che si effonde nello stato di pace, śama.
Se applichiamo quanto sopra illustrato al sentire erotico, ecco come si dipana il processo: eroe ed eroina s’incontrano e ne nasce un’emozione determinante data da una causa concreta: il loro incontrarsi. Lo sfondo è un giardino primaverile e la fanciulla risplende di gioielli, elementi di contorno che fungono da stimolanti e rinforzano l’emozione. A questo punto i due personaggi reagiscono l’uno all’altra con sguardi languidi, abbracci, baci, che sono azioni conseguenti volontarie, mentre rossori, tremori, alterazione della voce sono espressioni involontarie del loro sentire. Al contempo l’eroina può provare gelosia, pensando ad una rivale, e questa è un’emozione concomitante transitoria. Tutto quanto descritto conduce a una emozione stabile che genera uno stato d’animo dominante e duraturo che sfocia nel sentimento dell’amore.
I navarasa vengono associati con particolari divinità, scenari, stagioni, ore del giorno, colori, modi musicali, composizioni poetiche e teatrali che li contestualizzano e ne approfondiscono il significato.
Nella rappresentazione scenica l’artista riproduce attraverso un preciso linguaggio corporeo il sentimento prescelto con tale precisione psicofisica da indurre per risonanza (oggi diremmo per contagio emotivo) la stessa emozione nello spettatore. Grazie alla comunicazione non verbale e ai significati impliciti dell’operazione artistica, si realizza l’ineffabile esperienza del rasa.
Tale termine ha come significato primario quello di “succo, spremitura, quintessenza” e si applica ad un processo di alchimia spirituale, ove si assaporano le essenze universali delle emozioni umane con intento non tanto estetico, quanto salvifico. La fruizione del rasa trasporta su un piano mistico. L’opera d’arte – poesia, pittura, musica, teatro, danza che sia – allude alla perfetta bellezza eterna sottesa al mondo caduco e imperfetto e ne fa godere l’esperienza. La rappresentazione mitica o comunque paradigmatica travalica i limiti spazio-temporali e dilata l’accadimento specifico e particolare in un evento generale e universale.
Il processo di “distillazione artistica” è lungo e complesso: l’artista percepisce un dato evento, ne risulta emotivamente coinvolto e sente insorgere dentro di sé uno stato d’animo che lo induce a riprodurre l’esperienza toccante che ha vissuto. Per farlo sceglie il linguaggio espressivo che più gli è congeniale, ma che comunque è sempre elaborato e codificato dalla tradizione e che proprio per questo traduce il vissuto emotivo individuale in una comunicazione universale, fruibile da tutti gli spettatori [1].
Il vincolo a determinate norme non soffoca l’estro creativo del vero artista, che traspare nella personale e attuale riproposizione di un patrimonio corale e antico, continuamente rivivificato dalla fede dei suoi interpreti.
M.A.
NOTE
[1] Tuttavia se l’emozione, bhāva, è il fiore e il godimento estetico, rasa, è il frutto, non sempre da un bhāva scaturisce il rasa, poiché non tutti i fiori diventano frutti.