Lo spazio della musica nel teatro kabuki

https://doi.org/10.55154/VKOQ1037

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MONGITORE Rodolfo, “Lo spazio della musica nel teatro kabuki”, AsiaTeatro – rivista di studi online, anno 2023, n.1, pp. 23-35.
https://doi.org/10.55154/VKOQ1037

Abstract. Tra i diversi generi espressi dalla tradizione teatrale giapponese, il kabuki si caratterizza per un’organizzazione dello spazio scenico particolarmente articolata. Questa complessità intrinseca rispecchia la natura eterogenea di uno spettacolarità che è stata spesso ricondotta, con tutte le distinzioni del caso, alla nozione di “teatro totale”. Un caso peculiare riguarda l’organizzazione degli spazi dedicati ai diversi organici strumentali che compongono l’orchestra del teatro Kabuki e alla logica che governa la visibilità o invisibilità degli interpreti alla vista del pubblico. Una pluralità di soluzioni che sfugge alle convenzioni che regolano i rapporti tra musica e scena nella tradizione teatrale occidentale.

Lo spazio della musica nel teatro kabuki

di Rodolfo Mongitore

Partendo da una prospettiva occidentale, la gestione degli spazi riservati ai musicisti del teatro kabuki appare decisamente controintuitiva. In verità è bene sottolineare che la storia che ha determinato la definizione dello spazio orchestrale nei teatri occidentali, è meno lineare di quanto ci si possa attendere.[1] Tuttavia è indubbio che con l’affermazione del teatro all’italiana alla fine del XVII secolo e la successiva riforma wagneriana culminata nell’edificazione del Festspielhaus di Bayreuth nel 1876, l’orchestra trovi un posizionamento definitivo ai piedi del proscenio, nella cosiddetta “fossa” (mystischer Abgrund nel variopinto vocabolario wagneriano), posta al di sotto del livello della platea.[2] Al netto delle specificità strutturali dei diversi teatri e con risultati più o meno riusciti, questa soluzione si perfezionò gradualmente con l’obiettivo di nascondere la visibilità dell’organico strumentale alla vista del pubblico. Nella cultura spettacolare occidentale pertanto, questo rapporto tra musica e azione si è definito anzitutto attraverso un’interpretazione del fenomeno sonoro inteso come elemento indipendente dalla sua sorgente fisica.[3]

Alla luce di questo presupposto è sufficiente uno sguardo per rendersi conto che l’organizzazione degli spazi definita nel kabuki, strettamente codificata come in tutta la tradizione teatrale giapponese, offre per la sistemazione dei musicisti una varietà di soluzioni molto più complessa e di difficile interpretazione per uno spettatore non preparato. Un esempio particolarmente rappresentativo di questa difficoltà interpretativa è offerto dalla testimonianza del giornalista inglese Edward H. House, che nel suo libro Japanese Episodes del 1881, riporta le impressioni raccolte durante “A day in a japanese theater”.

Anzitutto House ci tiene a precisare che, almeno per il preludio musicale che accompagna l’apertura del sipario, “non c’è certamente nessuna di quella barbara indifferenza che, nei teatri cinesi,[4] permette di vedere l’orchestra in piena e rumorosa attività dietro gli attori”.[5] In questo caso, sorvolando l’evidente mancanza di strumenti interpretativi dell’autore, House si riferisce alla musica geza prodotta all’interno del kuromisu, una struttura chiusa che nasconde alla vista del pubblico una parte dell’organico orchestrale del kabuki. L’apprezzamento dell’autore per l’accorgimento riservato all’organico geza (inconsapevole probabilmente della struttura del kuromisu) è esteso genericamente agli allestimenti scenici giapponesi che sono giudicati da House “abbastanza buoni a modo loro”; tuttavia questi parziali apprezzamenti si evolvono rapidamente in una serie di rimostranze rivolte alla sistemazione degli altri musicisti. Un giudizio mitigato dal parziale riconoscimento riservato alle funzioni svolte dai cantori per la comprensione della narrazione:

The disposition of their musicians, however, is open to severer criticism, of which, by the by, they are unsparing themselves, but seem reluctant to overthrow the old traditions, even while acknowledging their absurdity. From what would be their proscenium, if they had a proscenium, to what would be the edges of their first wings, if they had those, stretch two little galleries or platforms, about five feet above the stage, in which the orchestras and choruses are stationed. There are generally three samisen, or guitar-players, and three singers on each side; and it should be mentioned that one of the justifications of their presence in so conspicuous a position, is that the assistance of the choruses is supposed to be frequently required, to explain the progress of the drama.[6]

Questo resoconto, testimonianza di un’attitudine paternalistica ampiamente diffusa in quel periodo verso le tradizioni teatrali extra occidentali,[7] è anche un utile strumento per introdurre i termini principali di questa analisi: la pluralità delle soluzioni con cui la musica è organizzata nello spazio del teatro kabuki e la giustificazione delle apparenti incongruenze derivate dalla visibilità degli esecutori nella cultura teatrale giapponese.

Dal punto di vista strettamente strutturale è possibile schematizzare la disposizione dei musicisti del kabuki in tre macro aree.[8] Osservando il palcoscenico, sulla sinistra (shimote 下手), troviamo appunto il kuromisu 黒御簾, una piccola stanza dotata di tende oscuranti in cui è allocato un insieme di strumenti: un numero variabile di shamisen 三味線 (liuto a tre corde), e il gruppo narimono 鳴物, composto da flauti (nōkan 能管 o shinobue 篠笛) e da percussioni delle famiglie tsuzumi 鼓 e taiko 太鼓. A seconda delle specifiche esigenze dettate dalla scena possono aggiungersi metallofoni e percussioni di varia natura. Questo eterogeneo complesso strumentale si esprime attraverso diversi modi e tipologie musicali proprie del kabuki. In ogni caso, a prescindere dai singoli generi, tutta la musica eseguita all’interno del kuromisu viene ricondotta alla cosiddetta musica geza (geza-ongaku 下座音楽) ed è eseguita fuori dalla scena, risultando pertanto invisibile al pubblico.

Per quanto riguarda il palcoscenico, in determinate circostanze sceniche principalmente riconducibili alla danza, l’organico del nagauta 長唄 (genere lirico che comprende un numero variabile di shamisen ed eventualmente di cantori) può essere posto alla vista del pubblico, allineato su una pedana collocata dietro agli attori o ai lati della scena. In alcuni casi vi si aggiungono, al di sotto della pedana, i musicisti del narimono: questo contesto musicale integrato all’azione scenica prende il nome di debayashi 出囃子.

In zona sopraelevata, alla destra del palcoscenico (kamite 上手), troviamo lo yuka 床, l’area in cui sono posizionati gli interpreti della narrazione takemoto 竹本 derivata dal repertorio gidayū-bushi del teatro dei burattini bunraku 文楽 (in origine ningyō jōruri 人形浄瑠璃), composto solitamente da uno shamisen e un narratore (tayu 太夫) che possono intervenire in modo da essere visibili al pubblico (degatari 出語り) o nascosti dietro una tenda (misu-uchi みすうち).

Un caso particolare è rappresentato dalla collocazione del musicista incaricato di eseguire lo tsuke ツケ, un particolare effetto sonoro ottenuto tramite la percussione di due blocchi di legno (ki ) su una tavola e utilizzato per enfatizzare i movimenti degli attori durante le scene d’azione più concitate o per accentuare l’effetto delle caratteristiche pose statiche mie 見得,[9] eseguite per sottolineare stati emotivi particolarmente intensi. L’interprete dello tsuke si posiziona solitamente accovacciato a bordo palco sul lato destro, in modo da poter sincronizzare al meglio la propria performance con i movimenti e i passi degli attori coinvolti: in questo caso siamo di fronte ad una visibilità che potremmo definire parziale. È importante sottolineare che tutti i musicisti che occupano formalmente la scena o lo yuka indossano il kamishimo 裃, il tradizionale abito formale storicamente riservato ai samurai e agli uomini di corte, mentre l’interprete dello tsuke, visibile ma in posizione defilata, è solitamente abbigliato con il più semplice kimono montsuki hakama 紋付袴.

Questa breve sintesi va intesa come modello generale utile per orientarsi all’interno delle casistiche più diffuse ma in verità, nella pratica teatrale, si possono osservare numerose variazioni che si adattano alle differenti esigenze scenografiche e al numero degli esecutori coinvolti. Non è raro infatti che l’organico nagauta sia collocato, insieme ai cantori e ai musicisti del narimono, su pedane ai lati del palcoscenico. Allo stesso modo gli interpreti della narrazione musicale jōruri, specialmente se organizzati in formazioni estese, possono essere disposti al livello del palcoscenico su apposite piattaforme. Vale la pena citare inoltre il caso delle danze kake-ai 掛け合い[10] che prevedono la presenza simultanea in scena di differenti organici, solitamente tokiwazu e nagauta, alternando i propri interventi a seconda delle necessità imposte dalla narrazione.

Per quanto riguarda gli aspetti funzionali, la presenza o l’assenza dei musicisti può essere definita all’interno di uno schema relativamente semplice che, al netto di inevitabili approssimazioni, permette di orientarsi. La musica fuori scena del geza ongaku interviene principalmente durante i dialoghi, le caratterizzazioni dei contesti (eventi atmosferici, ambienti) le introduzioni, gli ingressi e le uscite dei personaggi, e per caratterizzare scene di azione. All’estremo opposto abbiamo invece le musiche che vengono eseguite in scena e che intervengono principalmente durante contesti in cui la danza è preminente (debayashi) o per le parti narrative che prevedono l’accompagnamento dello shamisen (degatari).[11]

Distribuzione schematica dei musicisti sul palcoscenico kabuki.

Se la musica fuori scena prodotta dall’organico geza, sorta di “golfo mistico” del teatro giapponese, esprime una condizione riconoscibile dalla cultura spettacolare occidentale,[12] diverso è il caso rappresentato da tutti gli interventi musicali visibili al pubblico. Si potrebbe obiettare che anche nelle convenzioni del melodramma esistono situazioni in cui la presenza di musicisti sulla scena è convenzionata. Un caso esemplificativo si trova nell’ultimo quadro del secondo atto del Don Giovanni di Mozart, durante la cena che precede l’arrivo del commendatore: non è raro infatti che i registi, anche negli allestimenti più tradizionali, prevedano un piccolo ensemble di fiati disposto a vista sul palcoscenico. Tuttavia la differenza sostanziale rispetto al debayashi o al degatari del kabuki, è che in simili casi la visibilità dei musicisti è giustificata attraverso un collegamento esplicito con la realtà della rappresentazione; è infatti il personaggio stesso di Don Giovanni a rivolgersi direttamente ai “suonatori” in diverse occasioni:

“Già la mensa è preparata.
Voi suonate, amici cari!
giacché spendo i miei danari,
io mi voglio divertir.”[13]

A questo punto è lecito chiedersi quale sia il senso di uno spazio come il kuromisu, progettato con il fine di nascondere alla vista del pubblico i musicisti dell’organico geza. Se la visibilità della performance debayashi non è recepita come inverosimile per quale motivo la musica geza dovrebbe esserlo? Evidentemente questa orchestra invisibile nasce da esigenze diverse rispetto all’abisso mistico wagneriano e comporta convenzioni differenti che governano la visibilità dei soggetti che non sono direttamente riconducibili alla narrazione. Si tratta di un complesso di norme che si scontrano e investono le basi logiche su cui poggia la tradizione teatrale occidentale.

Nel tentativo di dipanare tutte le variabili che abbiamo elencato (spazi, organici strumentali e funzioni drammaturgiche) all’interno di uno schema logico, possiamo tentare di leggere le relazioni tra musica e scena attraverso un modello che definisca il campo di esistenza della performance musicale rispetto alla narrazione. Tuttavia ci troviamo fin da subito a dover affrontare una prima ambiguità che rischia di compromettere qualsiasi ragionamento: l’impossibilità di stabilire un collegamento diretto, mimetico, tra la realtà mondana e quella fittizia, rappresentata sul palcoscenico del kabuki.

Per comprendere e giustificare questa apparente contraddizione è necessario prendere in considerazione una convenzione generale che riguarda trasversalmente tutta la teatralità giapponese: nel kabuki, così come nel , nel kyōgen e nel ningyō jōruri, la narrazione della scena non mira ad ottenere una mimesi verosimile della realtà, bensì una sua sintesi spettacolarizzata e codificata in tutti i dettagli. Sono i segni che determinano e giustificano il senso di ciò che vediamo sulle scene del teatro tradizionale giapponese.[14] L’attore del kabuki non intende imitare l’aspetto naturale dei personaggi che interpreta, pertanto qualsiasi distinzione basata sui criteri della verosimiglianza e dei dettami aristotelici è del tutto fuorviante.[15]

L’unico criterio che può guidarci per individuare uno schema coerente è attenerci ai codici che abbiamo elencato e che formalizzano questa rappresentazione sintetica della realtà. Se prendiamo in esame la tradizione del teatro d’opera occidentale possiamo riconoscere una norma generale che, in modo approssimativo,[16] può aiutarci a introdurre i termini generali del problema attraverso una semplice convenzione drammaturgica: in sintesi, la musica intesa come azione visibile, può essere disposta sulla scena solo se giustificata direttamente dalla narrazione. È il caso che abbiamo citato per il Don Giovanni mozartiano con i suonatori che accompagnano la cena che precede l’arrivo del commendatore: i musicisti sono di fatto delle comparse di una realtà condivisa con tutti i personaggi. Allo stesso modo possiamo avere uno strumento che suona al di fuori della scena ma che è comunque riconducibile alla rappresentazione.[17] Al netto di queste due casistiche il campo di esistenza della musica è esterno alla realtà scenica a prescindere dalla localizzazione (nella fossa orchestrale o dietro le quinte). L’azione musicale è occultata il più possibile alla vista del pubblico, con l’obiettivo di ottenere l’illusione di una musica che proviene da una “dimensione altra” rispetto a quella della narrazione.

Questa esclusione è assente nel teatro kabuki: la musica può essere invisibile (geza) o presente sulla scena senza la necessità di una giustificazione drammatica. Il narratore che interviene durante il degatari, così come l’organico debayashi, non sono personaggi o comparse contestualizzate drammaturgicamente come i “suonatori” del Don Giovanni. Tuttavia la realtà della messa in scena del kabuki, pur non rispondendo ai principi di verosimiglianza del teatro occidentale, è comunque governata da codici precisi, i quali a loro volta determinano delle norme che regolano i soggetti coinvolti.

Un elemento utile a introdurre il problema è la figura dell’assistente di scena definito genericamente kōken 後見. Il palcoscenico del kabuki è infatti spesso occupato, oltre che dagli attori e dagli eventuali musicisti del debayashi,da un numero variabile di personale che svolge una serie di attività a sostegno della rappresentazione, come la movimentazione di oggetti ed elementi scenografici o il supporto agli attori durante le spettacolari trasformazioni dei costumi che avvengono alla vista del pubblico (hikinuki/bukkaeri). Il kōken si muove sul palco con estrema discrezione, in modo da minimizzare il suo impatto visivo e, allo stesso modo dei musicisti, può indossare il kamishimo o il montsuki. Esiste tuttavia un particolare costume riservato ad alcuni assistenti che consiste in un abito integrale completamente nero a cui si aggiunge un velo che copre il volto. Il personale di scena in questo caso prende il nome di kurogo 黒衣 ed è derivato direttamente dagli assistenti presenti nel teatro dei burattini ningyō jōruri.

Da una prospettiva meramente percettiva e illusionistica il kurogo, nonostante la tenuta, è tutt’altro che invisibile: a seconda delle circostanze scenografiche e illuminotecniche previste dalla scena può risultare infatti del tutto visibile. Il colore nero, nelle convenzioni del kabuki, indica infatti che il soggetto è invisibile a prescindere dalla pura percezione dei sensi: il kurogo pertanto è escluso dal campo di esistenza della rappresentazione.[18] Così come l’attore del kabuki non coincide con il personaggio, il kurogo non deve essere realmente invisibile.

Se dovessimo cercare un contraltare musicale al tipo di “invisibilità” che contraddistingue il kurogo potremmo forse ritrovarlo nell’interprete che abbiamo citato incaricato di produrre lo tsuke: lo ritroviamo infatti accovacciato a bordo palco, sul lato del kamite, vestito di scuro e intento ad accentuare la gestualità e le movenze degli attori con il caratteristico suono prodotto dai due blocchi di legno percossi su una tavola. La sua è quindi una presenza discreta, marginale, motivata anzitutto da ragioni pragmatiche. In entrambi i casi (kurogo e interprete tsuke) siamo di fronte ad una forma di invisibilità implicita o, più precisamente, ad una condizione di presenza scenica extra diegetica.[19]

Apparentemente potremmo applicare la stessa interpretazione per i componenti degli organici debayashi e degatari; anche in questo caso infatti la presenza dei musicisti non è giustificata direttamente dalla narrazione, tuttavia alcuni elementi codificati suggeriscono una relazione differente con la realtà della rappresentazione. Il dettaglio più evidente è rappresentato dal vestiario che contraddistingue tutti i musicisti propriamente detti (shamisen, narimono), i cantanti e i narratori che, a differenza dell’austero montsuki riservato all’interprete dello tsuke, indossano gli abiti formali del kamishimo,decisamente più appariscenti. Inoltre nel debayashi i musicisti sono disposti al di sopra e a piedi di una lunga piattaforma di colore rosso, occupando una posizione preminente sul palcoscenico ed esplicitando così un evidente richiamo visivo. Per quanto riguarda gli interpreti adibiti alla narrazione takemoto, sebbene confinati lateralmente all’interno dello yuka, offrono anch’essi una performance peculiare e ben visibile, essendo posizionati al di sopra del livello della scena, in favore di luce e in una cornice architettonica che ne enfatizza la presenza. I movimenti e la postura di tutti i musicisti è improntato ad una rigorosa formalità: la postura con cui occupano lo spazio è ieratica e i movimenti che coinvolgono l’esecuzione sono strettamente misurati e codificati.[20]

Quale dovrebbe essere quindi il campo di esistenza di queste musiche così platealmente visibili? Non quello a cui appartiene il kurogo, l’assistente reso implicitamente invisibile dal codice scenico del suo abito, ma neanche quello della realtà condivisa dai personaggi che interagiscono fra di loro. La risposta a questa domanda va ricercata nell’origine eterogenea dei codici del teatro kabuki, rielaborati da elementi derivati dal , dal jōruri, e dal repertorio della musica per shamisen. Sebbene sia difficile stabilire una cronologia precisa rispetto all’assorbimento delle diverse pratiche e stili musicali, è assodato che gli strumenti del sono già presenti nella pratica del kabuki all’inizio del XVII secolo, mentre per lo shamisen, con il repertorio lirico nagauta e le forme di musica narrativa derivate dal jōruri, bisogna attendere il secolo successivo per un’integrazione stabile.[21]

La prassi degli interpreti a vista sul palcoscenico è il prodotto di una sintesi di stilemi e forme derivate anzitutto dalla tradizione del teatro e dal ruolo preminente della danza, di cui il kabuki elabora una versione peculiare. In modo analogo al , la musica è quindi parte di un’azione scenica e di un movimento costruito attorno all’attore che attraverso la danza determina lo spazio e il tempo della rappresentazione.[22] In questa dimensione il corpo dei musicisti non è ridotto ad un “apparato tecnico dell’emissione sonora”,[23] ma è parte imprescindibile di un contesto che supera le leggi della verosimiglianza e che affonda la propria coerenza nelle antiche tradizioni rituali che stanno alla base della teatralità giapponese: l’attore/sciamano, attraverso la danza e la musica, diventa il tramite che connette il mondo degli uomini con quello degli dei e degli spiriti.[24] In questo caso il campo di esistenza della musica si trova in una posizione mediana rispetto alla rappresentazione: non può essere considerata propriamente esterna alla diegesi ma allo stesso tempo non è riconducibile alla condizione del musicista di scena che interpreta una comparsa o un personaggio direttamente connesso agli eventi narrati.

Per avere un quadro più ordinato possiamo inserire le diverse casistiche all’interno di uno schema che interpreti la musica del kabuki attraverso la relazione tra lo spazio fisico in cui è collocata e il campo di esistenza che ricopre. Abbiamo quindi l’organico geza posto all’interno del kuromisu che, attraverso la riduzione della sorgente sonora,[25] genera l’illusione di una musica invisibile e approssimativamente compatibile con le funzioni svolte dalla fossa orchestrale in occidente.

La relazione con la scena può essere diretta, stilizzando un suono che trova riscontro con la narrazione (un evento meteorologico) o indiretta, condizione comune a tutti gli eventi musicali che esistono solo come fenomeni sonori assoluti, privi di forma fisica. Abbiamo poi le casistiche riconducibili agli eventi sonori formalmente invisibili ma la cui sorgente sonora (l’interprete) è visibile al pubblico, come gli interventi dello tsuke o, più raramente, del ki.[26]

In una zona mediana si trovano le performance musicali formalmente visibili e che avvengono sul palcoscenico (debayashi) ma che, allo stesso tempo, possono essere considerate extra diegetiche.

Va inoltre menzionato, anche per il kabuki, il caso di un personaggio interno alla narrazione, un cantore cieco ad esempio, che suona sul palcoscenico.[27] Lo yuka infine, delimita l’organico composto dai narratori e musicisti jōruri: è collocato in uno spazio autonomo, indipendente dalla scena e può, a seconda dei casi, rendere gli interpreti visibili o invisibili.

Schema delle relazioni tra gli organici e la narrazione in rapporto alla visibilità sulla scena.

Il teatro kabuki offre quindi una pluralità di relazioni tra musica e scena che, oltre differenziarlo dagli altri generi del teatro giapponese, non trova eguali in nessuna cultura dello spettacolo. Questo risultato, unico nel suo genere, è il prodotto di un dinamismo riscontrabile ancora oggi e di un continuo affinamento degli effetti spettacolari: scenografie complesse, palcoscenici girevoli, botole da cui entrano ed escono gli attori, variazioni illuminotecniche, personaggi che volano letteralmente per la sala appesi a delle corde: il kabuki è uno spettacolo che immerge lo spettatore all’interno di una varietà di stimoli impressionante.[28] L’attualità del teatro kabuki trova la propria ragion d’essere in uno spettacolo votato alla complessità, che sfugge a qualsiasi semplificazione e che offre un’interpretazione alternativa delle diverse forme con cui la musica può manifestarsi sulla scena.



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Note

[1] Per un inquadramento storico dell’orchestra intesa come luogo e spazio architettonico nella tradizione teatrale barocca si veda: Pirrotta, Nino, 1975.

[2] Wagner R., 1940, p. 284.

[3] Un interessante contributo sulla pratica acusmatica della riduzione della sorgente sonora nella tradizione occidentale è offerto da Kane B., Sound Unseen – Acousmatic Sound in Theory and Practice, Oxford University Press 2014.

[4] Nella tradizione teatrale cinese infatti gli strumenti sono solitamente collocati intorno alla scena senza che questa visibilità venga percepita come disturbante o incongruente.

[5] House H. E., 1881, pp. 211-212 (traduzione a cura dell’autore).

[6] ibid.

[7] Per una panoramica approfondita sulla ricezione occidentale del teatro kabuki nel Diciannovesimo secolo si veda Leiter L. Samuel, 2022.

[8] Una sintesi schematica ma di grande efficienza e affidabilità si trova nel portale “Invitation to kabuki” promosso dal Japan Arts Council: https://www2.ntj.jac.go.jp/unesco/kabuki/en/stage/index.html (06/01/2022).

[9] Gli interventi tsuke spesso entrano in relazione con interventi della musica geza. Vedasi Scott A. C., 1955, p. 73.

[10] https://www3.nhk.or.jp/nhkworld/en/tv/kabukikool/kabuki_words_2016_15.html (01/02/2023).

[11] Questa tripartizione funzionale (effetti sonori, danza e narrazione), pur essendo utile a schematizzare la visibilità o invisibilità dei musicisti in scena rispetto i diversi contesti drammatici, non è in grado ovviamente di restituire tutte le possibili eccezioni e soluzioni specifiche che si possono ritrovare in un repertorio ampio e variegato come quello del teatro kabuki.

[12] La fossa orchestrale occidentale è stata spesso utilizzata come esemplificazione allegorica per definire la musica extradiegetica cinematografica. Celebre il concetto di “musica da schermo” e “musica da fossa” proposto dal semiologo Michel Chion. Per una panoramica generale del problema si veda: Ennio Simeon, Per un pugno di note; storia, teoria, estetica della musica per il cinema, la televisione e il video, Milano, Rugginenti, 1995, pp. 46-47.

[13] Da Ponte, Lorenzo, Il Don Giovanni, Atto II, Scena XIII in Libretti d’opera italiani dal Seicento al Novecento, a cura di Giovanna Gronda e Paolo Fabbri, Milano, Mondadori, 2003, p. 834.

[14] Earle E., 1956, pp. 125-126.

[15] Ottaviani, 2007, p.168.

[16] Ci si riferisce in questa sede alle convenzioni consolidate nel XVII secolo e ampiamente confermate durante il XVIII. Gli albori del melodramma in verità prevedevano soluzioni sceniche in cui la presenza dei musicisti sul palcoscenico svolgeva funzioni scenografiche svincolate dai dettami della verosimiglianza. Si veda Pirrotta N., 1975.

[17] La musica del corteo festante fuori scena che irrompe nell’ultimo atto della Traviata di Verdi ne è un celebre esempio.

[18] Si veda: https://www2.ntj.jac.go.jp/unesco/kabuki/en/production/performance7.html (06/01/22).

[19] Ci si riferisce in questo caso ad una categorizzazione sonora piuttosto diffusa nella critica degli audiovisivi e che interpreta la musica e i suoni attraverso la relazione tra lo spazio e il tempo del racconto (diegesi). Per un inquadramento generale si veda, Chion M., 1994, pp.67-94.

[20] Scott, A. C., 1955, pp. 81-82.

[21] Per un accurato profilo storico delle forme e funzioni della musica del teatro kabuki si veda, Brandon J. R., 1978, pp. 133-165.

[22] Azzaroni G., Casari M., 2021, p. 122.

[23] Wagner R., Milano 1940, p. 284.

[24] Ruperti B., 2015, p. 23.

[25] Il concetto di riduzione della sorgente sonora, intesa come oggetto autonomo, è un’interpretazione sviluppata dal compositore e teorico Pierre Schaeffer, padre della “musica acusmatica”. Si veda nel dettaglio, Schaeffer P., 1966.

[26] Si tratta di due battenti in legno che, a differenza degli tsuke,sono percossi fra di loro e utilizzati per scandire momenti chiave della rappresentazione; come l’apertura del sipario o il finale di un atto. Cfr. https://www2.ntj.jac.go.jp/unesco/kabuki/en/production/music8.html (05/02/2023).

[27] Come caso esemplificativo si veda l’allestimento Kumo no Ito Azusa no Yumihari in stile Henge Buyo (danze di trasformazione), dove un cantore cieco, che si rivelerà poi un demone-ragno, esegue alcune note su uno shamisen che viene sporto al personaggio direttamente da uno dei musicisti presenti sul palco: https://www3.nhk.or.jp/nhkworld/en/tv/kabuki/20200401/2035062/ (05/02/2023).

[28] Ruperti B., 2015, pp. 146-148