Lo yoga a supporto della performance artistica

https://doi.org/10.55154/CNAK8693

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Come citare

TAGLIAVINI Marialice e TEDIOSI Alice, “Lo yoga a supporto della performance artistica”, AsiaTeatro – rivista di studi online, anno 2024 fascicolo n. 1 , pp. 23-36.
https://doi.org/10.55154/CNAK8693

Abstract. Dalla metà del XX secolo, ossia da quando ha iniziato a diffondersi nel mondo occidentale, lo yoga ha attirato l’attenzione di diversi artisti come strumento per supportare la performance e anche lo studio quotidiano. Un caso celebre è quello del violinista Yehudi Menuhin, che nel 1952 incontrò lo yogi B.K.S. Iyengar. La collaborazione tra i due fu il primo tentativo, da parte di un musicista occidentale, di incorporare lo yoga nella pratica musicale. Il tentativo di Menuhin fu rudimentale, ma molto significativo perché ispirò molti altri musicisti ad usare lo yoga per alleviare i problemi legati alla pratica strumentale e per migliorare la performance e lo studio musicale. Le opere di Iyengar hanno attraversato anche la ricerca di uno dei padri del teatro contemporaneo: Jerzy Grotowski, il cui rapporto con lo yoga fu controverso. Da un lato lo yoga ebbe un’enorme influenza nella sua visione artistica, dall’altro lato Grotowski decretò che era inappropriato per la recitazione e per il training degli attori, in quanto portatore di una concentrazione troppo introversa, che nuoceva all’espressività. Di fatto però egli continuò ad usare alcune posizioni yoga, sia durante il training che in scena, facendo sperimentare agli attori diversi āsana.

Lo yoga a supporto della performance artistica

di Marialice Tagliavini e Alice Tediosi

1. Corrispondenze

È un istante sacro quello racchiuso fra il raccoglimento interiore – la fase di chiusura che precede l’ingresso sul palcoscenico – e l’apertura verso lo sguardo esterno di una platea. I piedi varcano la linea spesso invisibile di uno spazio Altro, lo spazio della scena, piedi allenati al radicamento, con piante che permettono di essere piante.

Quelle stesse piante che aspettano pazienti o impazienti di salire sul tappetino yoga, rettangolo di spazio in cui si scatenano le meraviglie del “qui e ora”. Ecco la prima corrispondenza.

Prima di iniziare è opportuno puntualizzare che in questo articolo utilizzeremo il termine “performance”facendo riferimento alla performance artistica, nello specifico quella musicale e teatrale. Performance è un termine inglese ormai comunemente usato anche nella lingua italiana e significa letteralmente “compiere, eseguire”. Un termine nobile a cui, soprattutto in questa epoca, è stato cucito addosso il vestito della produttività e della competitività, della fatica fisica o mentale fine a se stessa, del tempo come prodotto. Ma se si volesse invece essere clementi con questa parola, continuando a percorrere a ritroso la storia del termine si finirebbe per riconoscerne il lontano antenato nel verbo tardo latino performāre, il cui significato è «dare forma definitiva».

Dare forma, quindi. E qui è la seconda corrispondenza che incontriamo fra queste due pratiche per niente distanti che sono la performance e lo yoga. Dare forma a una frase musicale, dare forma a un testo o a un’immagine teatrale. Dare forma a un āsana (postura yoga). E dunque, in ogni caso, dare forma a un simbolo. E poi liberarlo, permettendogli di viaggiare nel corpo attivandolo, o consegnandolo ai sensi attenti di uno spettatore.

Cosa intendiamo per simbolo? Dal vocabolario Treccani “Simbolo è qualsiasi elemento (segno, gesto, oggetto, animale, persona) atto a suscitare nella mente un’idea diversa da quella offerta dal suo immediato aspetto sensibile, ma capace di evocarla attraverso qualcuno degli aspetti che caratterizzano l’elemento stesso, il quale viene pertanto assunto a evocare in particolare entità astratte, di difficile espressione”.

Così il simbolo agisce anche nello yoga, e in particolar modo nello Yoga Ratna. Lo Yoga Ratna è stato ideato dalla maestra Gabriella Cella, pioniera dello yoga in Italia, e si fonda sullo yoga classico, ma espande e porta ai massimi termini il piano simbolico insito nello yoga. Come spiega Enrica Rame, “Il cuore pulsante dello Yoga Ratna nasce dall’intuizione, confermata dall’esperienza quotidiana della pratica, che alla base dell’efficacia dello Yoga ci sia la potenza e la forza energetica del simbolo. Questa intuizione apre la via per un canale di comunicazione privilegiato con gli aspetti più profondi della nostra interiorità e ci permette di raggiungere tutti i livelli della nostra psiche”.[1]

Il modo in cui il simbolo agisce nello Yoga Ratna può non essere di immediata comprensione per il neofita, tuttavia ogni āsana porta in sé un significato simbolico, una storia. Il praticante che assume quella forma e riesce a mantenerla per un certo tempo sentirà agire su di sé, a livello prevalentemente inconscio, la forza di quel simbolo. In altri termini farà esperienza, un’esperienza del tutto personale, individuale, di cosa quel simbolo significhi per sé.

Similmente, la musica è un sistema simbolico, in cui i suoni (così come i silenzi) sono mezzi per trasmettere Altro attraverso la sensibilità e l’espressività personali.

Anche nel teatro troviamo l’uso del simbolo, soprattutto nel teatro contemporaneo in cui la creazione di uno spettacolo può ruotare attorno a elementi della scena non necessariamente testuali, come le immagini, che lavorano nello spettatore in modo diverso, ma ugualmente efficace rispetto al testo teatrale.

Ed ecco che, attraverso il simbolo, arriviamo a una terza corrispondenza, quella del corpo come veicolo. La spiritualità propria dello yoga la ritroviamo, in modo diverso, anche nel terreno della performance.

Vorremmo soffermarci su questo aspetto, iniziando dal teatro: la rappresentazione teatrale è presente fin dalle origini della storia dell’essere umano, quando ancora era inestricabilmente legata alla musica. Il suo uso catartico è noto sia nel teatro occidentale, che in quello orientale. Gli stessi pitagorici avevano mostrato l’efficacia di musica e teatro proprio in questo senso, e di questo motivo si avvalse Aristotele in un noto passo della Poetica in polemica con Platone. Mentre questi infatti condannava la poesia, soprattutto drammatica, come rappresentazione ed esaltazione di “perniciose passioni”, Aristotele, ferma restando la definizione dell’arte come imitazione della natura (mimesi), sostenne che la tragedia attraverso quella mimesi induce negli spettatori una purificazione delle passioni.

In epoca moderna, il regista russo Andrej Tarkovskij lega la funzione dell’arte con lo sconvolgimento e la catarsi e definisce l’arte come pretesto per un’esperienza spirituale.[2]

Un concetto simile è espresso in India con il rasa. Scrive Marilia Albanese nel suo articolo Bhāva e rasa, il sapore delle emozioni: “Secondo la visione indiana nove sono le principali emozioni, bhāva, e da esse scaturiscono altrettanti sentimenti, navarasa. […] Nella rappresentazione scenica l’artista riproduce attraverso un preciso linguaggio corporeo il sentimento prescelto con tale precisione psicofisica da indurre per risonanza (oggi diremmo per contagio emotivo) la stessa emozione nello spettatore. Grazie alla comunicazione non verbale e ai significati impliciti dell’operazione artistica, si realizza l’ineffabile esperienza del rasa. Tale termine ha come significato primario quello di “succo, spremitura, quintessenza” e si applica ad un processo di alchimia spirituale, ove si assaporano le essenze universali delle emozioni umane con intento non tanto estetico, quanto salvifico. La fruizione del rasa trasporta su un piano mistico. L’opera d’arte – poesia, pittura, musica, teatro, danza che sia – allude alla perfetta bellezza eterna sottesa al mondo caduco e imperfetto e ne fa godere l’esperienza.”[3]

Si instaura quindi una profonda relazione tra artista e spettatore: entrambi devono avere determinate qualità e abilità; è un rapporto bidirezionale e in tale legame è iscritto, appunto, il concetto di bhāva e rasa.

Viene spesso ricordato l’effetto delle prime rappresentazioni drammatiche (risalenti al VI secolo a.C.) sui cittadini che vi assistevano, ma raramente il pensiero si ferma su coloro che erano chiamati a compiere questa catarsi: gli artisti.

Cosa c’è dietro questa responsabilità? E come ci si prepara a questo movimento?

Da sempre l’essere umano incaricato di compiere questa impresa ha trovato strategie, soluzioni o pratiche per gestire questa sfida.

2. Yoga a supporto della performance

Per molti artisti, una pratica efficace è tuttora lo yoga. Ci prendiamo dunque un momento per raccontare come la pratica yoga sia per noi un sostegno necessario alla performance artistica.

Il fare teatro, così come il fare musica, implica intrinsecamente il dover affrontare emozioni e tensioni fisiche che nascono quando si è messi di fronte alla performance in pubblico. Nel caso della pratica musicale è necessario menzionare anche le lunghe sessioni di studio e i limiti fisici e tecnici dei musicisti, che possono causare dolori, infortuni e tensioni fisiche o emotive. In generale la performance richiede anche un grosso lavoro su di sé per la gestione delle emozioni e, di conseguenza, delle tensioni nel corpo. Ciò rende ancora più evidente il bisogno di sentirsi rilassati e ben radicati a terra, pur mantenendo un livello ottimale di attivazione che è indispensabile per una performance soddisfacente sia per l’artista che per il pubblico.

Lo yoga migliora le facoltà fisiche e mentali allo stesso tempo. Secondo la violinista Lauryn Shapter l’unione che si verifica nello yoga tra mentale, spirituale e fisico aiuta a gestire lo stress, migliorare la concentrazione e creare equilibrio.[4] Vorremmo specificare che quando parliamo di spiritualità legata allo yoga, intendiamo semplicemente che questa disciplina, esattamente come la musica o il teatro, se praticata in modo consapevole e profondo, continua a rivelarci qualcosa di noi che prima non conoscevamo, che non era accessibile.

Ci sentiamo di potere affermare che una pratica assidua può avere i seguenti benefici:

A livello fisico:

Attraverso le sue innumerevoli posture, tonifica, elasticizza e rafforza il corpo: lo yoga include āsana che favoriscono lo stretching e quindi la flessibilità e posture che richiedono una maggiore attivazione muscolare, il che favorisce il rafforzamento e aumenta il tono muscolare.

Nel caso della pratica musicale, lo yoga può contribuire alla riduzione del dolore fisico causato dalle lunghe ore di studio (per esempio dolore al collo e alle spalle, mal di schiena) e nella prevenzione degli infortuni (sindrome del tunnel carpale, infortuni alle spalle, tendiniti).

Il lavoro fisico, soprattutto riferito alla parte inferiore del corpo (gambe, caviglie e piedi), può favorire il radicamento a terra. Questo può essere di grande aiuto in quanto consente una maggiore stabilità e un maggior grounding, che in Bioenergetica indica la possibilità di sentirsi ancorati al suolo, radicati nella terra e anche nel proprio corpo e nel proprio sentire.

Gli esercizi di respirazione o pranayama allenano la capacità respiratoria.

A livello energetico:

Lo yoga può aiutare a riequilibrare le energie corporee: le diverse tecniche yoga possono contribuire a regolare la propria energia in base alle necessità del momento, che possono essere di rilassamento o di energizzazione.

Nel caso dello Yoga Ratna, è anche possibile fare un lavoro specifico riguardo all’energia maschile e femminile (che sono presenti in ognuno di noi). Con energia maschile intendiamo un’energia propositiva, vigorosa, diretta verso l’esterno e solare; mentre con energia femminile intendiamo un’energia accogliente, ricettiva, lunare e interiore. Il contatto con queste due diverse tipologie di energia e di manifestazione dell’essere può rivelarsi uno strumento molto utili per realizzare una performance ricca e profonda.

A livello di connessione mente-corpo:

Lo yoga aumenta la consapevolezza corporea: questo aspetto, insieme ad altri (come per esempio il radicamento a terra) ha ricadute positive riguardo all’organicità del movimento e a una corretta postura. Nel caso dei musicisti, la pratica dello yoga aiuta a portare consapevolezza al modo in cui si suona e in cui si regge lo strumento, aiutando a suonare con maggiore agio.[5]

Inoltre affina la consapevolezza del respiro: questo aspetto contribuisce a calmare la mente e ad allenare al «qui e ora», che è alla base della performance. Nel caso dei musicisti la consapevolezza del respiro porta un beneficio musicale fondamentale, ossia migliora il controllo del suono e il fraseggio.

A livello mentale:

Lo yoga può aumentare la forza e la chiarezza mentali e favorire la memoria.
Può migliorare la concentrazione e la focalizzazione.
Può avere effetti positivi sull’umore.

Alla luce di tutti questi aspetti e ai fini della performance, possiamo sottolineare anche che:

Lo yoga aiuta corpo e mente ad entrare in uno stato extra-quotidiano, necessario per le prove e per la scena: il lavoro su respiro, corpo e mente consente di mobilizzare l’energia e raggiungere uno stato psico-fisico ottimale, quel punto critico in cui attivazione e rilassamento sono al giusto livello.

Lo yoga può aiutare ad accettare i sintomi fisici dell’ansia da palcoscenico come qualcosa di naturale. Questa accettazione di per sé può già ridurli. Tuttavia le tecniche corpo-mente (es. respirazione, āsana) e quelle mente-corpo (es. visualizzazioni, rilassamento) possono avere un effetto concreto sulla riduzione dei sintomi.

La disciplina dello yoga ci ricorda l’importanza del metodo e del rito, così cari alla creazione di uno spazio dedicato al raggiungimento di un buon risultato artistico, che si fonda necessariamente sulla dedizione e sulla pratica quotidiana, principi che rafforzano e confortano l’artista, dandogli un’ancora di sostegno.

Negli ultimi decenni, grazie alla nascita e allo sviluppo della Performing Arts Medicine (talvolta tradotta in italiano come “medicina dell’arte”) si è anche ampliata la mole di studi scientifici e di pubblicazioni che attestano i benefici dello yoga sia per i musicisti,[6] sia per gli attori.[7]

3. Esempi eccellenti

Nel mondo della musica occidentale il primo esempio riguarda la collaborazione tra il violinista Yehudi Menuhin e lo yogi B.K.S. Iyengar.

Yehudi Menuhin (1916-1999) fu il bambino prodigio del violino nel XX secolo. Iniziò a studiare all’età di cinque anni e debuttò con la San Francisco Simphony solo due anni più tardi. Ne seguì una lunga carriera come virtuoso e solista. Come ben descritto da Hannah Murray, fu a seguito di problemi personali e dell’estenuante tournée di concerti per le truppe dell’esercito durante la Seconda Guerra Mondiale, che Menuhin si ritrovò esausto e con problemi fisici e dolori che influivano negativamente sulle sue performance musicali.[8] Intuì che il movimento era l’essenza del problema. Nel 1952, durante un tour in Nuova Zelanda, Menuhin trovò, nello studio di un osteopata, un libro di yoga e subito ebbe la sensazione che questa disciplina avrebbe potuto migliorare la sua comprensione della pratica musicale con il violino. Prese il libro con sé e iniziò a praticare gli esercizi ogni giorno. Così lo yoga diventò una parte essenziale della sua routine quotidiana per il resto della sua vita. Alla fine di febbraio del 1952, soltanto alcuni mesi dopo la sua scoperta dello yoga, Menuhin partì per un tour di concerti in India, dove cercò attivamente uno yogi. Ormai convinto del valore dello yoga in quanto pratica che aumenta contemporaneamente il potenziale mentale e quello fisico, incontrò Bellur Krishnamachar Sundararaja Iyengar (1918-2014).

Yehudi Menuhin nel 1943

Iyengar nel 1948 aveva già lavorato con il filosofo indiano Jiddu Krishnamurthi. Questa collaborazione gli aveva portato fama e rispetto, ma il suo sogno di rendere lo yoga popolare fu accelerato principalmente dall’incontro con Yehudi Menuhin. Infatti fu su invito del violinista che Iyengar viaggiò in Gran Bretagna, poi in Europa Occidentale e infine negli Stati Uniti. In seguito lavorò con svariati altri musicisti classici, come la violoncellista Jacqueline DuPré ed i pianisti Clifford Curzon e Witold Makuzynski.[9].

Menuhin parlava apertamente della sua affinità con lo yoga, ritenendo questa disciplina uno strumento per migliorare la pratica violinistica e l’insegnamento. Quando l’insegnamento divenne parte centrale della sua vita, fondò la Yehudi Menuhin International School (1963), una scuola residenziale per giovani talenti.[10] Fin dall’inizio Menuhin insistette particolarmente su un’alimentazione sana e sull’esercizio fisico, con lezioni di yoga più volte alla settimana. [11]

Vedi immagini del training di Menhuin nella biografia di Iyengar su Google Arts and Culture:
https://artsandculture.google.com/story/bQXBKGRRbVhaJg

Nel 1971 Menuhin pubblicò sei video intitolati Violin, accompagnati da un libro (Six lessons with Yehudi Menuhin). La prima lezione della serie, intitolata “General preparatory exercises”, include  āsana per la postura ed esercizi di respirazione (pranayama). Il violinista era solito insistere che la forma fisica gioca un ruolo significativo nel migliorare la consapevolezza e che porta a migliori performance e a una più autentica musicalità.[12]

Per Menuhin l’incontro con Iyengar fiorì in un’amicizia che durò tutta la vita e spesso si riferì a lui come al suo più importante insegnante di violino. La collaborazione tra i due fu il primo tentativo, da parte di un musicista occidentale, di incorporare lo yoga nella pratica musicale. Il tentativo di Menuhin fu rudimentale, ma molto significativo per il mondo della musica in generale, perché ispirò molti altri musicisti a usare lo yoga per alleviare i problemi legati alla pratica strumentale e per migliorare lo studio, la performance. [13]

Le opere di B.K.S. Iyengar hanno attraversato anche la ricerca di uno dei padri del teatro contemporaneo: il polacco Jerzy Grotowski (1933-1999).

Nonostante l’enorme influenza che lo yoga ebbe nella visione artistica di Grotowski e, conseguentemente, nel training del suo gruppo di ricerca teatrale Teatr Laboratorium, Grotowski si allontanò in seguito da questa disciplina decretando che lo yoga era inappropriato per la recitazione e per il training degli attori.

Dal suo testo Per un teatro povero: “Ci chiedevamo: è vero che lo yoga può dare agli attori una grande capacità di concentrazione? Osservammo che nonostante tutte le nostre speranze avveniva esattamente il contrario. Si raggiungeva un certo grado di concentrazione, ma era di tipo introverso. Una concentrazione così distrugge l’espressività: è un sonno interiore, un equilibrio inespressivo”.[14]

Grotowski si avvicinò allo yoga perché affascinato dalla disciplina in sé (nella sua forma originaria e tendenzialmente idealizzata), e questo indipendentemente dalle sue applicazioni teatrali.

Tuttavia, fino alla sua applicazione nella ricerca teatrale, gli studi di Grotowski sullo yoga furono quasi esclusivamente teorici. Due scritti lo segnarono profondamente: Search in Secret India di Paul Brunton, un libro autobiografico sul viaggio dell’autore in India e sul suo incontro con il maestro Ramana Maharshi, e The life of Ramakrishna di Romain Rolland.

Una revisione critica dei libri di Rolland e Burton chiarisce però un fatto, che poi è anche la questione principale del rapporto di Grotowski con lo yoga: entrambi i volumi sono permeati da un atteggiamento a-storico nei confronti della disciplina e tradiscono una visione del mondo orientalista profondamente radicata, che identifica e idealizza l’India unicamente come la “Terra della spiritualità universale”. Tutto questo senza tenere conto di una visione più moderna della yoga che era in atto e che lo riteneva una pratica accessibile a molti e non riservata ai soli asceti. È ipotizzabile che l’uso da parte di Grotowski e la conseguente rinuncia alla disciplina per scopi teatrali fosse permeato da una serie di preconcetti su cosa fosse tale disciplina e sui risultati che avrebbe dovuto produrre.

Infatti quello che Grotowski di fatto fece a un certo punto è ben descritto in un passo contenuto nel suo libro Per un teatro povero: “Osservammo però che alcune posizioni yoga sono di grande aiuto nelle reazioni naturali della colonna vertebrale; portano a un senso di sicurezza fisica, un naturale adattamento allo spazio. Perché dunque sbarazzarsene? Si trattava unicamente di cambiare il loro orientamento.”[15]

Così Grotowski affidò a Ryszard Cieślak (il suo più stretto collaboratore ed attore) il libro di B.K.S. Iyengar Teoria e Pratica dello Yoga, chiedendogli di imparare le posture in esso contenute e di trasmetterle al resto del gruppo. Il libro di Iyengar fu dunque la fonte principale per Cieślak, sia nell’esecuzione che nella modalità di trasmissione. Gli attori della troupe impararono a sperimentare gli āsana con uno o più partner, con il suono, in relazione allo spazio o, ancora, improvvisando con indicazioni teatrali (con/contro, lento/veloce, con un’emozione, immaginando di essere un animale etc.). Gli esercizi creati utilizzando gli āsana vennero infine presentati da Grotowski come “posizioni yoga con correnti mutate”, e come tali non vennero considerate parte della disciplina yoga. Questi esercizi sono presenti tutt’oggi in quello che viene conosciuto come il training di Grotowski.

Vedi sul sito del Grotowski Institute una galleria di immagini di Ryszard Cieślak durante il training, Opole 1964:

https://grotowski.net/en/media/galleries/training-laboratory-theatre-13-rows-1964

Lo yoga dunque inibisce l’attore? Alcuni insegnanti e registi pensano di sì. In realtà noi crediamo che debba esser messo in discussione solamente l’approccio che essi hanno o hanno avuto con lo yoga e il loro volerlo considerare una disciplina che isola, che chiude. Un approccio che appunto non tiene conto dei cambiamenti che lo yoga ha attraversato negli ultimi secoli. Lo Yoga Ratna, con le sue pratiche sottili che arricchiscono l’esecuzione degli āsana, ritiene lo yoga una pratica completa che comprende anche l’estroversione e una forte connessione con le emozioni e la propria interiorità.

4. Conclusioni

Menuhin e Grotowski sono stati tra i precursori di qualcosa che è in continuo aumento: la diffusione di un dialogo costante tra lo yoga e la performance artistica. Negli ultimi decenni anche la ricerca scientifica nel campo della Medicina dell’Arte ha attestato i benefici di questa pratica attraverso numerosi studi e pubblicazioni. In questo contesto, e anche alla luce dell’esperienza di Grotowski, non possiamo tralasciare il fatto che lo yoga, come qualsiasi strumento o metodo, debba essere utilizzato con sapienza in modo che possa supportare gli artisti e favorire il raggiungimento dei propri obiettivi. È dunque chi si affida ad esso che è chiamato a dare una direzione alla propria pratica, con o senza l’aiuto di un esperto di yoga. Non è mai superfluo ricordare che uno strumento è di per sé cieco e che è compito di chi lo utilizza farne un uso positivo. In caso contrario si rischia di non trarne alcun beneficio, o, ancor peggio, di ottenere effetti negativi.
È giunto il momento, finalmente, di entrare in scena: chiudiamo gli occhi per un istante, facciamo un respiro profondo e, con piedi ben radicati a terra, facciamo il primo passo per salire sul palco.


Bibliografia

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WINDING Eleanor, Yoga for Musicians and Other Special People, Alfred Publishing Co., Sherman Oaks, 1982.


NOTE

[1] Rame 2018.

[2] Tarkovskij 1988.

[3] Albanese 2011-2021 https://www.asiateatro.it/india/teatro-di-attore/bhava-e-rasa/

[4] Shapter 2007.

[5] Olson, 2009.

[6] Khalsa et al., 2017; Lee Soen, 2016; Stern et al., 2012; Leska, 2010; Su et al., 2010; Shapter, 2007; Dawson, 2006; Winding, 1982.

[7] Verma, 2018; McCaw, 2016; Kapsali, 2013; Aronson, 1999.

[8] Murray 2017.

[9] Murray 2017; Goldberg 2016.

[10] Burton 2001

[11] Ancora oggi la Yehudi Menuhin School propone lezioni di yoga due volte alla settimana: https://www.menuhinschool.co.uk/school/academic/sport.

[12] Menuhin 1986.

[13] Murray 2017.

[14] Grotowski 1970, p. 289.

[15] Ibidem.