Uno Chiyo e il ningyō jōruri

https://doi.org/10.55154/KINW2632

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Come citare

MARANGONI Rossella, “Uno Chiyo e il ningyō jōruri”, AsiaTeatro – rivista di studi online, anno 2023, n.1, pp. 53-92.
https://doi.org/10.55154/KINW2632

Abstract. Nel 1942, dopo essere rimasta incantata davanti a un burattino del ningyō jōruri, la scrittrice Uno Chiyo (1897-1996) si reca sull’isola di Shikoku per incontrare l’anziano maestro intagliatore di buratttini che ne è l’artefice, Tenguya Kyūkichi (1858-1943). Da quell’incontro scaturirà un breve racconto, sorta di resoconto di quella visita durata una decina di giorni, dal titolo Ningyōshi Tenguya Kyūkichi (Il fabbricante di burattini Tenguya Kyūkichi). Il racconto uscirà prima a puntate nell’autunno 1942 e sarà poi pubblicato in volume nel 1943 per i tipi di Buntaisha. Nella narrazione che Uno Chiyo ascolta e trascrive, il vecchio artigiano ricostruisce i sessant’anni della sua attività e, al tempo stesso, apre una finestra su un mondo passato, quello del teatro dei burattini di tradizione popolare, fiorito all’interno delle comunità contadine della prefettura di Tokushima e ormai in declino. Il saggio mira a mettere in evidenza il lavoro accurato di trascrizione delle parole del vecchio maestro da parte della scrittrice, e la centralità di questo breve testo nella sua riscoperta delle arti tradizionali performative del Giappone popolare.

Uno Chiyo e il ningyō jōruri

di Rossella Marangoni

Chi si avvicina oggi al teatro dei burattini lo fa esclusivamente per amore dell’arte. Non vi è nulla al di fuori di questo, né l’avidità né il desiderio di gloria. Tali persone sono forse gli “scarti della storia”, uomini “illusi e incapaci di leggere i tempi”, eppure quella serena indifferenza rispetto a fama e ricchezza e la totale devozione dello spirito derivano loro proprio dalla “maestria”: non dovremmo dunque, da parte nostra, tornare a riflettere sulla straordinaria influenza che la “maestria” può avere sulla vita delle persone?
Tanizaki Jun’ichirō, da Geidan, 1933

Introduzione
L’incontro con il burattino

Nella primavera del 1942 Uno Chiyo 宇野千代 (Iwakuni 1897 ‒ Tōkyō 1996) è in visita a casa dell’amico Shimanaka Yūsaku 嶋中雄作, redattore della rivista Chūōkōron 中央公論. La sua attenzione è attirata da un burattino appoggiato in un angolo.

È questo il primo incontro della scrittrice con il teatro dei burattini (ningyō jōruri 人形浄瑠璃 o bunraku 文楽);[1] un incontro non privo di conseguenze nella vita della scrittrice.

Nel panorama culturale del Giappone del XX secolo Uno Chiyo è un personaggio eccentrico: una donna moderna che ha attraversato il secolo, capace di affrontare in modo anticonvenzionale ogni aspetto della sua vita, sia nella dimensione lavorativa che in quella sociale e affettiva, trasgressiva nel rifiuto del modello imposto di ryōsai kenbo 良妻賢母, ossia “buona moglie e madre saggia”, moltiplicando i matrimoni e le relazioni e rappresentando la quintessenza della moga o modan gāru モダンガル, la modern girl degli anni Venti, sempre in anticipo sui tempi, muovendosi a proprio agio sia nel milieu letterario, il bundan 文壇, che in quello della moda e degli affari, lei, ragazza di provincia, capace di affrontare con disinvoltura successi e avversità, sempre animata da un indomito spirito di resilienza. Da giovane insegnante a cameriera di ristorante, da venditrice ambulante a segretaria, da scrittrice a fondatrice di riviste di moda, a giornalista, a designer di kimono, a attivista per la preservazione di case tradizionali e di alberi antichi, la moga sfrontata di epoca Taishō 大正 (1912-1926) diventa alle soglie del nuovo millennio celebrità amatissima dal pubblico dei talk show televisivi e punto di riferimento per le giovani: un esempio. Ma è ammirata anche nell’ambiente selettivo dei circoli letterari. Il fatto è che Uno Chiyo ha saputo dar prova del proprio indiscutibile talento letterario centellinandolo in una produzione limitata ma di grande qualità; uno stile rigoroso, il suo, in cui è stato eliminato ogni elemento superfluo e che fa emergere, con acutezza, l’interiorità dei personaggi come sotto la lente di un microscopio. Tagliente come una lama, la scrittura cristallina di Uno Chiyo si mette al servizio dei personaggi e a volte sembra volersi nascondere dietro di essi, soprattutto nelle opere che la scrittrice elabora nel genere letterario da lei inventato, il kikigaki 聞書き, oggetto di uno dei prossimi paragrafi.

Nel 1942 la guerra del Pacifico aveva inasprito le maglie della censura nei confronti degli intellettuali, chiamati a partecipare attivamente allo sforzo bellico come corrispondenti di guerra o, almeno, come autori di opere di propaganda più o meno convinte e convincenti. I più restii a farsi coinvolgere avevano ripiegato su un basso profilo, riducendo al minimo la propria attività, e, quando incapaci di opporsi al clima imperante, limitando a un’esigua paginetta il proprio contributo alla propaganda bellica.[2]

La scrittrice Uno Chiyo, lei, è estranea a ogni discorso di questo tipo. Il suo ultimo marito, lo scrittore e critico Kitahara Takeo 北原武夫 (1907-1973), allo scoppio della guerra del Pacifico è inviato a Giava; il secondo marito, lo scrittore Ozaki Shirō 尾崎士郎 (1898-1964), ha aderito entusiasticamente alla campagna di arruolamento degli intellettuali messa in atto dal regime, ed è partito per il fronte sul continente. Anche la sua collega Hayashi Fumiko 林芙美子 (1903-1951) ha accettato di recarsi in Cina come inviata dell’Asahi shinbun 朝日新聞. Dal canto suo, Chiyo aderisce all’Associazione Femminile Patriottica (Aikoku fujinkai 愛国婦人会, poi confluita nell’Associazione Femminile del Grande Giappone, Dainihon fujinkai 大日本婦人会) e si dedica alla ricerca di stoffe per confezionare i monpe もんぺ , quei pantaloni da lavoro di ruvida stoffa blu che costituivano la tenuta obbligatoria all’epoca per le donne. Un maggior coinvolgimento non è nel suo stile, come avrà modo di dichiarare in seguito.

Ma è irrequieta, e in quel 1942, la visione del burattino che raffigura il personaggio femminile di Oyumi お弓 del dramma Keisei Awa no Naruto 傾城阿波の鳴門,[3] abbigliato con un modesto kimono a righe, è una rivelazione. La moglie di Shimanaka muove per l’ospite il burattino, mostrando le particolarità della testa di Oyumi le cui uniche parti mobili, per questo tipo femminile, sono gli occhi. Quel giorno, a casa Shimanaka, per uno strano caso gli occhi di Oyumi non riescono ad aprirsi, eppure provocano un’intensa emozione nell’animo di Chiyo: “La profondità del dolore visibile nei suoi occhi chiusi, non avrebbe potuto mai essere espressa dagli occhi chiusi di una donna vivente”.[4]

Chi ha potuto realizzare una testa capace di trasmettere sensazioni di tale intensità?

È un’epifania. Chiyo sente di doverne incontrare l’artefice, scopre che si tratta di un celebre intagliatore di teste per il jōruri, Tenguya Kyūkichi 天狗屋久吉 o Hisakichi 久吉[5] (1858-1943), che vive a Wada 和田, distretto di Kokufu 国府町, nei dintorni di Tokushima 徳島, sull’isola di Shikoku 四国.

Testa di burattino intagliata da Tenguhisa I (utilizzata per il personaggio di Osome),
© The Trustees of the British Museum

Chiyo chiede a Shimanaka di intercedere presso Kume Sōshiki 久米惣七, un giornalista locale che ha già avuto modo di scrivere del maestro artigiano Tenguya proprio per la rivista Chūōkōron, affinché organizzi un incontro.[6] Sarà proprio Kume a presentare alla scrittrice il celebre Tenguhisa 天狗久, come viene chiamato da tutti, e a organizzare l’incontro, nell’estate del 1942, che sarà all’origine del breve racconto di Chiyo dal titolo Ningyōshi Tenguya Kyūkichi (人形師天狗屋久吉, Il fabbricante di burattini Tenguya Kyūkichi). Il racconto comparirà, serializzato, su Chūōkōron, nei numeri di novembre e dicembre 1942. Sarà poi pubblicato in volume nel 1943 dalla casa editrice Buntaisha 文体社, collegata alla rivista letteraria Buntai 文体 che aveva fondato con il marito Kitahara Takeo nel 1938.

Forse per Chiyo questo viaggio all’isola di Shikoku per incontrare un artigiano rappresenta il corrispettivo del rifugio e della fuga che altri intellettuali giapponesi in quei tempi avevano ravvisato nello studio della letteratura del passato. Del resto, come ha osservato Donald Keene: “When the resistence was impossible the only alternative was escape”.[7] Forse nel suo caso non si trattava di una vera e propria risoluzione, un kakugo 覚悟, un partito preso rispetto alla guerra, come era avvenuto per altri.

Certo è che questo incontro segnerà una svolta nella produzione letteraria di Chiyo, spingendola a tornare a scrivere dopo un lungo periodo di inattività.

Dal racconto orale al resoconto scritto: il kikigaki

Il breve testo di Chiyo è elaborato nella tecnica da lei inventata e a cui deve buona parte della sua fama come scrittrice, tecnica che utilizza in modo magistrale anche in questa occasione: il kikigaki (letteralmente “ascoltare/scrivere”), definibile come la trascrizione di una testimonianza orale. Non si tratta, quindi, di un’opera di finzione, bensì del resoconto di un’intervista condotta presso la casa-laboratorio delfabbricante di burattini Tenguya Kyūkichi nel corso di una decina di giorni.

Seduta davanti al maestro intagliatore, Chiyo lascia che sia lui a parlare. Nel testo i commenti della scrittrice sono minimi mentre prevalgono le parole dirette di Tenguya, e le osservazioni o le domande della scrittrice possono essere intuite attraverso le risposte del suo interlocutore che, in una sorta di flusso di coscienza, si muove di ricordo in ricordo, raccontando episodi della sua esistenza e la sua visione a proposito dell’arte e del futuro del jōruri.

“Il libro non era una semplice trascrizione delle parole di Tenguya ma una ricreazione, attraverso il mosaico delle sue reminiscenze, dei suoi sessant’anni da intagliatore di teste di burattini”,[8] osserva Donald Keene.

Non conoscendo la stenografia ed essendo, ovviamente, priva di strumenti di registrazione, Chiyo prende appunti e si affida alla sua prodigiosa memoria per riportare il racconto del fabbricante di burattini. Ne risulta una testimonianza suggestiva, che si impone vivida nella mente del lettore in grado di cogliere la conversazione amichevole dei due protagonisti, dal fluire delle parole di lui e dai silenzi di lei, intervallati da brevi interventi “fuori campo” in cui la scrittrice rivela le proprie sensazioni durante l’ascolto. Sembra quasi, al lettore, di poter visualizzare i due nella penombra della bottega: l’anziano artigiano seduto al proprio deschetto, circondato di pezzi di legno e di piccoli attrezzi, mentre parla con calma, la voce sommessa che a tratti si vivacizza in un raro guizzo umoristico, senza mai interrompere il proprio lavoro e, discosta, seduta in un angolo, la brillante scrittrice, forse intimidita dalla figura ieratica del maestro, tutta intenta all’ascolto, un taccuino alla mano.

Il testo che nasce da questo incontro è esemplare del lavoro di Uno Chiyo sulla scrittura: una progressiva politura che porta a un nitore, a una limpidezza che è caratteristica mirabile dello stile di Chiyo. Nessun orpello, nessuna parola superflua: solo il fluire preciso e tagliente del racconto. Uno stile unico che fa dire a Keene: “Uno era una scrittrice minore sotto tutti gli aspetti, tranne che per quello più importante: la qualità di ciò che scriveva, e su questa base merita un posto tra le tre o quattro scrittrici più importanti della letteratura giapponese moderna”.[9]

La resa del dialetto

La scrittrice rende fedelmente la testimonianza di Tenguhisa lavorando sulla lingua e riproducendo l’elegante dialetto di Awa, l’Awaben 阿波弁, parlato dal maestro artigiano, un dialetto non molto diverso da quello della regione natale della scrittrice, Iwakuni 岩国, nel Giappone occidentale, e che quindi era in grado di comprendere. Il lavoro sulla lingua permette così a Uno Chiyo di ancorare alla realtà di Awa il racconto e di conferire al testo una maggiore attendibilità e l’indubbia vivacità di una testimonianza diretta. Questo senza che si debba dimenticare che Uno Chiyo era una scrittrice dotata di una notevole autoconsapevolezza: pur sembrando, l’autrice, scomparire come un antropologo in ascolto partecipe del suo informatore, il suo è un lavoro di cesellatura, di politura della materia attraverso lo strumento della propria arte, uno strumento che maneggiava in modo magistrale.

Nel testo, la scrittrice si riferisce a Tenguhisa utilizzando sempre il termine ojiisan お爺さん (il vecchio) senza mai rivolgersi direttamente a lui e non riportando neppure le sue domande ma facendole dedurre al lettore direttamente dalle risposte.

Il maestro si rivolge a Chiyo utilizzando un linguaggio formale con la tipica formula di fine frase de gozaimasu でございます che nel suo eloquio diventa de gozarimasu でござります. Altri elementi ricorrenti nella sua narrazione in prima persona sono le contrazioni (hon’ni ほんに per hontōni 本当に, “davvero”, oppure omosshoi おもっしょい per omoshiroi 面白い, “interessante, divertente”, chau ちゃう per chigau 違う, “è diverso”, ecc.), la fusione di nomi e della posposizione accusativa o を che li segue (ad esempio: yume o diventa yumyoo, ishi o diventa ishii). Inoltre Tenguhisa nel suo narrare utilizza han はん al posto di san さん come suffisso onorifico dopo un nome, prassi comune anche nel dialetto del Kansai. [10]

Awa e Awaji, terre di burattini

Nel Giappone centrale, il ningyō jōruri ha una lunga storia e ha rivestito un ruolo centrale fra le arti performative popolari (minzoku geinō 民俗芸能) nel mondo rurale dell’isola di Awaji 淡路島 e della vicina provincia storica di Awa (attuale prefettura di Tokushima 徳島県).

Nel dialetto della regione di Awa i ningyō (da 人, “persona” e 形, “forma”) sono chiamati deko, pronunciato a volte deku (da 木偶, lett. “pupazzo di legno”).

L’Awadeko hakomawashi 阿波木偶箱廻し era uno spettacolo nomade di burattini eseguito nelle zone rurali sulle isole Shikoku e Awaji. I burattinai, o dōkunbōmawashi 道薫坊廻し (ossia contadini che si mantenevano manipolando i burattini), viaggiavano con scatole legate al collo che fungevano sia da deposito che da palcoscenico in miniatura. I primi burattini erano teste senza corpo su aste di legno, simili ai kubiningyō 首人形 dell’isola di Sado 佐渡島. Piccole teste di gesso dai tratti accuratamente dipinti e dai capelli in fibra vegetale spuntavano da elaborati costumi ed erano manovrate dal basso e da dietro. In seguito, queste figure furono trasformate in pupazzi in costume di dimensioni maggiori che erano trasportati in casse appese a pali di bambù (hako 箱, “scatola”, da cui derivail termine hakomawashi 箱廻し), portati a bilanciere.

Lo hakomawashi ha le radici nelle cerimonie religiose eseguite nei templi shintō durante l’epoca Edo (1603-1868).[11] Ne è un esempio il sanbasōmawashi 三番叟まわし, in cui un burattinaio manipola un burattino Sanbasō 三番叟 attraverso una serie di coreografie rituali fino a quando non entra in una trance mistica. Questa trance è contrassegnata dagli occhi del burattino che ruotano verso l’alto attraverso un trucco meccanico collocato dentro la testa, il gabu. Una volta che il burattino è fatto cadere in questo stato di possessione divina, indossa una maschera nera[12] e scuote un sonaglio (suzu), eseguendo un rito di purificazione. Un altro tipo di hakomawashi è l’ebisukaki 恵比寿かき, in cui un burattino con le caratteristiche sembianze del kami della pesca, Ebisu 恵比寿, canta canzoni, chiede un po’ di sake e garantisce buona fortuna con la formula di buon auspicio: “Medetai, medetai めでたい、めでたい”.[13]

Awa Ningyō, Ebisu. (Foto R. Marangoni)

Spettacoli di buon augurio nella terra dell’indaco

La tintura dei tessuti con l’indaco (aizome 藍染め) si pratica nel territorio della provincia storica di Awa sin dall’epoca Heian (794-1185). La particolare palette di blu cangianti nel tempo, l’inconfondibile color indaco che caratterizza i tessuti contadini del Giappone tradizionale, nasce da piante di tadeai 蓼藍 (Percicaria tinctoria)[14] fatte fermentare e poi sottoposte a un lungo processo di lavorazione da cui si ricava il prezioso colorante. Prima di essere utilizzato per la fabbricazione di inchiostri per la stampa, l’indaco è stato usato per trattare i tessuti a causa delle numerose proprietà che erano attribuite alla pianta stessa. Come in tutte le culture antiche tradizionali, anche in quella giapponese si attribuivano ai colori svariate virtù e l’indaco non faceva eccezioni: le sue proprietà antisettiche erano conosciute e apprezzate anche dai guerrieri che lo utilizzavano per i capi che stavano a contatto con la pelle, allo scopo di cauterizzare eventuali ferite. Inoltre lo si credeva capace di tener lontani gli insetti e i serpenti, di preservare le vesti dalle muffe; gli si attribuivano proprietà medicinali e, più in generale, apotropaiche.

Awa è sin dall’antichità la terra dell’indaco. In questo territorio l’indaco cresce come un dono prezioso per la comunità che da esso ricava il proprio sostentamento. Il limo fertile trasportato dalle periodiche alluvioni del fiume Yoshino 吉野川 arricchiva il suolo dei campi ma impediva la coltivazione del riso, che fu sostituita proprio dalla coltura dell’indaco. A mano a mano che questa coltura prosperava, i mercanti di Awa si muovevano per le province del Giappone e già nella prima metà dal XVII secolo detenevano un vero e proprio monopolio della produzione e del commercio dell’indaco.

All’inizio dell’anno e all’arrivo della primavera i burattini dell’hakomawashi erano accolti nelle case e nei magazzini dei ricchi mercanti dell’indaco che chiedevano a Sanbasō e a Ebisu il dono di ricchi raccolti e, in seguito, di benedire con una buona qualità le foglie preziose che, una volta raccolte, erano messe a fermentare.

Se all’origine dei teatro di figura, in Giappone, è la pacificazione rituale dei kami per prevenire le epidemie e l’invocazione per ottenere benefici, nell’antica provincia di Awa un altro elemento si andò ad aggiungere: qui, infatti, indaco e ningyō, o meglio, deko, furono sempre collegati. Come si spostavano i mercanti, così si muovevano i burattinai, di casa in casa, di villaggio in villaggio: estraevano i loro burattini dalle scatole che recavano a bilanciere sulle spalle e allestivano i loro spettacoli ai crocicchi delle strade o addirittura, se veniva loro permesso, sulle soglie delle case (e allora erano chiamati kadozuke).[15] Bastavano solo sei burattini a rappresentare una storia e a interrompere la monotonia della quotidianità di una contrada, di un villaggio.

Poi, a mano a mano che il feudo cresceva di importanza, gli Hachisuka 蜂須賀, signori di Awa e di Awaji, iniziarono a patrocinare il ningyō jōruri, introdotto dalla sua terra d’origine, la vicina isola di Awaji, ordinando alle troupe di Uemura Gennojō 上村源之丞 e Ichimura Rokunojō 市村六之丞 di allestire spettacoli in occasioni festive, come segno di buon auspicio.

Fu così che il panorama dell’Awadeko 阿波木偶 si arricchì di nuove forme di spettacolo tutte collegate fra loro dall’utilizzo di burattini.

La ragione è da ricercare nel fatto che alle popolazioni rurali di Awa era proibito di assistere a spettacoli di teatro kabuki 歌舞伎, mentre gli spettacoli di ningyō jōruri erano permessi entro tre leghe dalle terre degli Hachisuka.

Lo spettacolo di ningyō jōruri che si attestò a Awa si fondava sul sangyo 三業, la fusione di tre maestrie: la recitazione drammatica del cantore-narratore, il tayū 太夫, l’arte musicale del futozaoshamisen 太棹三味線 (shamisen dal grosso manico) e l’arte congiunta di tre burattinai per fantoccio, sannin ningyō zukai 三人人形遣い,[16] in questo analoga alla forma più elegante che si era imposta a Ōsaka, derivata anch’essa dalla comune matrice individuabile nell’isola di Awaji. Questa forma, però, a Awa subì alcune modifiche tecniche per opera proprio del maestro Tenguhisa, più funzionali per la fruizione di spettacoli all’aperto nei villaggi rurali su palcoscenici spesso provvisori.

Così, l’arte tradizionale che Tokushima può mostrare con orgoglio ancor oggi può essere a buon diritto definita Awanote 阿波の手, espressione che si potrebbe tradurre con “stile di Awa”.

L’artista

Tenguya Kyūkichi, o Hisakichi, o Tenguhisa, nato Yoshioka Kyūkichi 吉岡久吉, a Wada, presso Tokushima, nel 1858, fu senza dubbio il più celebre maestro intagliatore di teste per il ningyō jōruri della sua epoca. Definito già da Tanizaki Jun’ichirō (谷崎潤一郎, 1886-1965) nel suo Tade kuu mushi 蓼喰ふ蟲 (Gli insetti preferiscono le ortiche,[17] 1929), “l’unico vero maestro” fra i tre fabbricanti di burattini che lavoravano fra gli anni Venti e Trenta a Awaji e nell’area di Tokushima, Tenguya è proprio l’artista identificato come Tenguhisa nel romanzo che Tanizaki ambienta nel Kansai, là dove si è trasferito dopo il grande terremoto del Kantō che ha raso al suolo Tōkyō nel 1923. Il protagonista del romanzo, l’annoiato e scettico Kaname, viene convertito dal suocero, raffinato esteta, alla passione per il teatro dei burattini durante un breve soggiorno nell’isola di Awaji, appositamente organizzato dal suocero per procurarsi un fantoccio, da tanto desiderato, e per ammirare la rustica versione originale del bunraku di Ōsaka, prima di iniziare il circuito di pellegrinaggio ai 33 templi dell’isola di Awaji. È infatti con una deviazione verso lo stretto di Naruto e la regione di Tokushima per una visita a Tenguhisa che il suocero di Kaname e la sua compagna, Ohisa, intendono concludere il loro viaggio: “Il pellegrinaggio all’isola l’aveva almeno in parte progettato proprio con questo preciso scopo; per il resto aveva deciso di visitare la famiglia Gennojō e quella di Yuragame, e al ritorno, passando per il canale Naruto, avrebbe visitato Tenguhisa a Tokushima.”.[18]

Quella di Tenguhisa è dunque una qualità artistica riconosciuta e che appare a Tanizaki prima, e a Uno Chiyo poi, pur a distanza di molti anni, priva di una valida discendenza: “quando sarà morto anche quest’arte potrà dirsi purtroppo estinta” scrive ancora Tanizaki nel suo romanzo.[19]

Nella storia del ningyō jōruri della provincia di Awa così come in quello dell’isola di Awaji, versioni folcloriche antiche del formalizzato e raffinato bunraku di Ōsaka, la figura di Tenguya Kyūkichi ebbe un ruolo rilevante sia per la qualità artistica del suo lavoro che per la sua capacità di innovazione che lo portò a perfezionare costantemente le sue teste (kashira 首) per migliorare la prestazionedei personaggi favorendo, al tempo stesso, una migliore fruizione dello spettacolo da parte del pubblico. Tenguhisa ebbe l’idea di scolpire le teste di dimensioni maggiori rispetto a quelle intagliate fino ad allora[20] per permettere una resa più efficace nelle performance all’aperto che si tenevano negli spazi teatrali delle comunità rurali.[21] Questa modifica poteva rendere sbilanciati i corpi dei burattini, e quindi non fu mai fatta propria dal bunraku di Ōsaka, ma rispondeva perfettamente alle esigenze del teatro all’aperto rappresentato nei villaggi dell’area di Awa, nello Shikoku, e dell’isola Awaji, che accolsero quindi con favore l’innovazione.

Tenguhisa ideò inoltre per le sue teste una finitura lucida applicata per mezzo di mani sovrapposte (fino a trenta) di una miscela di gofun 胡粉[22] e colla. Nelle platee all’aperto dei teatri rurali, dove gli spettacoli si tenevano spesso nella scarsa luminosità di giornate piovose o invernali,[23] questa lucidatura permetteva anche agli spettatori più lontani di individuare meglio le teste e, quindi, i personaggi sulla scena. Al contrario, nella sala ben illuminata dei teatri bunraku di Ōsaka un’eccessiva lucidatura avrebbe dato una sgradevole impressione di sudore e quindi vi si continuò a preferire una finitura opaca.

Infine, attorno al 1890, fu sempre il maestro Tenguhisa ad avere l’idea di introdurre la pratica di inserire nelle teste dei ningyō degli occhi di vetro, per un maggior effetto di realismo. Fino ad allora si erano infatti usati occhi di legno.

Tutte queste modifiche (dimensioni, lucidatura, occhi), introdotte da Tenguhisa e fatte proprie dai teatri rurali di Awa e Awaji, sono annotate come incidentalmente dallo svagato protagonista del romanzo di Tanizaki in visita, col suocero e la compagna di questi, ai teatri di Awaji:

Kaname non s’intendeva delle particolari raffinatezze dell’arte di manovrare le marionette; avvertiva però che a paragone del Bunraku di Ōsaka, l’azione scenica era cruda, priva di delicatezza, in una parola, volgarizzata. Ciò dipendeva anche dalle espressioni e dai costumi delle marionette: i lineamenti erano duri, rigidi, indefinibilmente lontani da quelli umani. Al Bunraku, il viso dell’eroina sarebbe stato rotondo e disteso; qui era freddo e altezzoso come certe ordinarie figurine ritagliate di Kyōto, o come una di quelle bambole esposte annualmente. E il personaggio perverso aveva un’espressione troppo rubicante[24] e cattiva, rassomigliante più ad un’incarnazione diabolica che ad un essere umano. V’era poi la dimensione delle marionette, la testa in particolare, notevolmente maggiore di quelle di Ōsaka; e i protagonisti eran grandi addirittura come bambini di sette, otto anni. Ad Awaji dicono che le marionette di Ōsaka sono troppo piccole, e che la patina bianca dei loro visi è poco appariscente; per cui, contrariamente a quanto fanno al Bunraku, ove si preferisce un colorito più verosimile, nell’isola si affannano a lustrare i visi di gesso. È anche vero che gli occhi delle marionette di Awaji sono eccezionalmente mobili: in certi casi non solo si spostano a sinistra e a destra, ma pure in alto e in basso, e di volta in volta appaiono rossi o celesti. Nell’isola anche le marionette che rappresentano personaggi femminili possono aprire e chiudere gli occhi ‒  cosa di cui gli indigeni vanno molto orgogliosi ‒  mentre a Ōsaka esse hanno quasi sempre uno sguardo fisso ed immobile.[25]

Le innovazioni introdotte nell’Awadeko non impedirono a Tenguya Kyūkichi, nel corso della sua lunga attività di intagliatore, di lavorare a commesse per il più raffinato e elegante bunraku di Ōsaka, così come di dedicarsi, nei periodi di scarse ordinazioni da parte dei teatri, alla fabbricazione di bambole di varie dimensioni e di giocattoli e all’intaglio di oggetti cultuali buddhisti.

La dedizione totale che il maestro Tenguya votava al suo lavoro era riconosciuta, così come era straordinariamente accurato in lui lo studio dei caratteri che gli permetteva di realizzare volti in grado di esprimere e trasmettere sentimenti ed emozioni. È noto che Tenguhisa raccoglieva ritagli di libri e articoli di giornale relativi alle tecniche di “predizione del futuro” utilizzate da indovini e chiromanti, proprio per espandere la gamma delle espressioni facciali dei suoi kashira.

Durante il declino del ningyō jōruri, Tenguhisa produsse molte ikiningyō 生人形 (“bambole viventi”) che imitavano persone reali e che venivano mostrate come misemono 見世物[26] nei sakariba 盛り場, sorta di fiere di piazza permanenti. I ningyō a grandezza naturale di Tenguhisa, quei pochi rimasti e conservati nella sua bottega-museo, sono esemplari di un tipo di rappresentazione più realistica delle figure perché si discostano dal modello del teatro di burattini. Inserendo anche in questi manufatti gli occhi di vetro, e modificando le proporzioni, Tenguhisa riuscì a rispondere alle nuove esigenze di un’epoca nuova, dando prova di una notevole capacità di adattamento e di un livello elevato di coscienza produttiva.

Un altro lavoro peculiare a cui si dedicò il maestro fu la creazione di maschere per il mengeki 面劇.

Mengeki, una forma d’arte teatrale unica

Peculiare forma di arte performativa di Tokushima, il mengeki, chiamato anche menjōrurishibai 面浄瑠璃芝居, è una sorta di commistione fra kabuki e ningyō jōruri. Su una scena affine per dimensioni e struttura a quella del ningyō jōruri, un solo attore e nessun burattino. L’attore si muove secondo i kata 形 tipici del kabuki e, da solo, interpreta tutti i personaggi di una vicenda utilizzando una serie di maschere, ognuna caratteristica di una certa tipologia di personaggio, incarnandone uno di volta in volta, al cambiare della maschera. Solo la parte superiore del suo corpo è visibile dal pubblico. Questo permette all’attore un cambio veloce di costumi che sono solo parzialmente imbastiti, indossati uno sull’altro e facili da togliere.[27] Su una pedana collocata a lato del palcoscenico stanno, proprio come nel ningyō jōruri, un declamatore, il tayū, e un musicista, che lo accompagna con lo shamisen.

Alla fine del periodo Edo si era originato nell’area di Awa un genere di spettacolo con la presenza di attori che indossavano le maschere e che era chiamato mengei 面芸 e in cui la performance era accompagnata dalla narrazione e dalla musica jōruri. Il perfezionamento di questo genere teatrale in epoca moderna si deve a un attore kabuki, Hananoya Hanayakko 花之屋花奴 (nato Iwasa Ihei 岩佐伊平, 1901-1995), originario di Tokushima e nato e cresciuto in una famiglia di proprietari terrieri che commerciavano l’indaco a Ishii 石井町. È con lui che il genere assume la denominazione di mengeki. Partendo da un’intuizione avuta da adolescente, Hananoya, tornato quarantenne a Tokushima dopo anni di apprendistato lontano da casa, si recò nella bottega di Tenguhisa a Wada e lo convinse a modellare per lui delle maschere, utilizzando cartapesta rivestita di stoffa, un metodo alquanto complicato, stando a quanto ebbe a dichiarare lo stesso Tenguhisa. Si calcola che abbia preparato per l’attore circa duecento maschere. Le maschere usate da Hanayakko, il sessanta per cento delle quali si devono a Tenguhisa, sono state designate come proprietà culturali popolari tangibili della città di Ishii insieme a costumi, oggetti di scena, canovacci teatrali e materiali video registrati. Hananoya Hanayakko trasformò il mengeki in una singolare opera personale che continuò a rappresentare fino alla metà del periodo Shōwa.

Unico nella sua arte, Hananoya non lasciò eredi e ora il genere teatrale da lui inventato è scomparso con il suo creatore.

Kashira. Le teste dei burattini

Il corpo nudo del burattino hadaka ningyō 裸人形 è composto da un insieme in apparenza disordinato di parti mobili in legno, tessuto e ovatta tenute insieme da corde. Per preparare il burattino per lo spettacolo i manovratori lo rivestono con un kimono e altri accessori cucendoli con ago e filo.

Struttura dei burattini (foto R. Marangoni)

Di quel burattino disarticolato e nudo la parte più importante è il kashira, ossia la testa.

In origine era scolpita nel legno di paulonia o in quello di cipresso, più resistenti all’umidità e all’aggressione degli insetti, e i lineamenti erano semplicemente dipinti, ma già i più raffinati burattini utilizzati per le danze rituali di buon auspicio, Sanbasō e Ebisu, avevano alcune parti mobili: gli occhi e la bocca. Tali elementi avevano lo scopo di mostrare ‒  secondo alcuni studiosi come, ad esempio, Jane Marie Law ‒  che il ningyō cadeva in trance e veniva posseduto da un kami. Il ruolo degli intagliatori di kashira era allora di fondamentale importanza: erano considerati demiurghi in grado di liberare uno spirito dal legno che scolpivano. Essi stessi, del resto, si consideravano quali levatrici capaci di infondere la vita al burattino. Una testa poteva nascere bene (umare ga ii) o non bene: se nasceva bene si riteneva che avesse uno spirito dentro di sé.[28]

Come spiega Jane Marie Law: “Le teste dei burattini erano e sono ancora chiamate umare ga ii, che letteralmente significa ben nate’. Questo termine significa che la testa di un burattino non solo ha un bell’aspetto esteriore, ma anche che l’interno funziona bene, in modo che la testa sia ben bilanciata sul collo e, se abbinata al corpo e al costume di un burattino, sia chiaramente visibile dal palco. Sebbene la parola per ‛burattino’ e ‛bambola’ in giapponese sia la stessa (ningyō), è importante notare che un kashira può apparire bello quando è statico (essendo quindi un vero e proprio ningyō in senso decorativo) ed essere al tempo stesso un misero esemplare di kashira, un ayatsuri ningyō 操り人形 (fantoccio). Un buon kashira è quello che può essere manipolato con garbo. In altre parole, la vera bellezza di un kashira dipende da un abile burattinaio e dal contesto della performance. Proprio perché il teatro di figura diventa un’arte, prima che un mestiere, quando il burattinaio riesce a trascendere i limiti tecnici dei suoi materiali (burattini statici) e a farli vivere, una testa di burattino ‛nata bene prende vita nelle mani di un burattinaio”.[29]

L’uso di teste di burattini appositamente intagliate come pratica teatrale diffusa risale al XVII secolo. Anche se l’arte vera e propria dell’intaglio dei kashira era fatta risalire alla grande tradizione della scultura buddhista di epoca Heian (794-1185), con un inevitabile riferimento allo scultore Jōchō (XI sec.) e alla sua tecnica di assemblaggio delle parti scolpite (yosegi zukuri 寄せ木). Del resto i ningyōshi, e Tenguhisa non faceva eccezione, univano all’intaglio dei burattini la scultura di oggetti rituali buddhisti e il restauro di statue buddhiste.

Per la maggior parte, le teste dei burattini del jōruri del primo periodo erano molto piccole perché, come si è visto, erano utilizzate da artisti itineranti che recavano la loro attrezzatura tutta sulle spalle e si muovevano di villaggio in villaggio.

Il procedimento per la realizzazione di una testa per un ningyō si è andato attestando nel corso dei secoli ed è rimasto invariato dal XIX secolo. Una volta fatti essiccare, i pezzi di legno sono accuratamente selezionati dal ningyōshi evitando quelli con parti nodose e buchi e privilegiando una venatura uniforme. L’artigiano passa poi a scolpire l’intera testa nel blocco che in seguito viene tagliato a metà e svuotato. Si procede quindi all’intaglio delle parti mobili del volto, la bocca, gli occhi e (per i personaggi maschili) le sopracciglia mentre gli altri elementi vengono disegnati in un secondo momento. Si passa poi alla fase delicata della collocazione dei meccanismi interni (karakuri からくり) che permetteranno l’apertura e la chiusura di occhi e bocca e la mobilità delle sopracciglia e al loro collegamento, per mezzo di corde sottilissime, all’impugnatura che costituirà il collo del burattino e che verrà manipolata abilmente dal manovratore principale. Le due metà del kashira sono quindi riunite e la testa è finalmente dipinta con una trentina di mani di gofun che la imbiancano perfettamente. Si passa poi alla decorazione finale: sono disegnati i lineamenti, viene attaccata la capigliatura e sono aggiunte le decorazioni necessarie a individuare la tipologia di personaggio.

Esistono diverse decine di teste di burattini in uso, classificate secondo varie categorie (come, ad esempio, la giovane donna non sposata, musume 娘, la cortigiana, keisei けいせい, o il giovane uomo sensuale, genda 源太, o l’eroe generoso e appassionato, ōdanshichi 大団七. Ogni testa viene solitamente utilizzata per un certo numero di personaggi diversi, sebbene siano spesso denominate con il nome del ruolo in cui sono state utilizzate per la prima volta. Una prima superficiale suddivisione è data dalla forma degli occhi. Le teste con gli occhi ad angolo acuto (kadome 角目) caratterizzano il ruolo del protagonista o di un personaggio positivo; al contrario, quelle con gli occhi rotondi (marume 丸目) indicano i ruoli di personaggi malvagi, perfidi, crudeli.

In genere, le teste dei personaggi maschili hanno al loro interno dei congegni (karakuri) collegati a delle leve che si trovano su un’impugnatura manovrata sotto il collo del burattino e che permettono al burattinaio principale, l’omozukai, di muovere gli occhi, la bocca e le sopracciglia del personaggio. Queste leve sono collegate ai congegni per mezzo di corde dello stesso tipo di quelle dello shamisen, un tempo però si utilizzavano fanoni di balena, flessibili e più resistenti. Raramente le teste dei personaggi femminili sono elaborate quanto quelle maschili. Oltre alla possibilità di muovere gli occhi, solo alcune di esse possono spalancare la bocca in un ghigno diabolico e, facendo spuntare un paio di corna prominenti dalla capigliatura, trasformarsi in creature demoniache. In questo caso assumono allora la denominazione di gabu がぶ.

È stata avanzata l’ipotesi che l’importanza delle teste nel ningyō jōruri sia analoga a quella delle maschere nel 能,[30] e che condividano una medesima capacità di esprimere i sentimenti umani. Ma si tratta di un’impressione illusoria. Se le nōmen 能面 si collocano in quella linea sottile fra questo mondo e l’altro, permettendo all’attore di manifestare, attraverso un leggero movimento della testa, il pianto e il riso, il dramma o la serenità, rannuvolandosi (kumorasu 曇らす) o schiarendosi (terasu 照らす), i kashira del ningyō jōruri sembrano appartenere concretamente a questo mondo. I meccanismi che ospitano al loro interno ‒ che siano la capacità di sollevare le sopracciglia, quella di strabuzzare gli occhi, di spalancare la bocca in un ghigno minaccioso o di chiuderla in un delicato sorriso ‒ caratterizzano un’espressività totalmente umana, mentre la spiritualità emanata dalle maschere del fa sì che in questo genere teatrale, si possa cogliere la liminarità di personaggi che si muovono fra questo mondo e un altrove oscuro e misterioso che non riescono a raggiungere perché ancora trattenuti dalle passioni che li governavano quando erano in vita.

Nell’intaglio dei kashira il maestro Tenguhisa fu senza dubbio l’artigiano più apprezzato del suo tempo. Si considera che nella sua vita abbia scolpito almeno un migliaio di teste per il teatro dei burattini. Poche sono sopravvissute a incendi e distruzioni e sono conservate con cura presso templi e musei. Alcuni kashira di Tenguhisa, ad esempio, sono custoditi presso il Kuramoto Yasakajinja 蔵本八坂神社, nei dintorni di Tokushima. Questo jinja è particolarmente legato al teatro di figura poiché è qui che la compagnia di Nakamura Sonodayu eseguì per la prima volta uno spettacolo di sanbasōmawashi e di ningyō jōruri come offerta al tempio al posto di trasportare un mikoshi 神輿 portatile al matsuri 祭 autunnale del 1805. Le teste dei ningyō utilizzati dalla compagnia Nakamura sono state scolpite da Tenguhisa e, considerate di grande valore, sono state designate come proprietà culturali tangibili dalla prefettura di Tokushima.

Il racconto dell’intagliatore di burattini

Il breve testo di Chiyo, resoconto delle sue conversazioni giornaliere con Tenguhisa nel corso di dieci giorni, è suddiviso in nove capitoli di lunghezza variabile, preceduti da una brevissima introduzione in cui l’autrice racconta l’antecedente del viaggio a Shikoku. Quel burattino intagliato dal maestro e ammirato a casa del suo editore, una sera di primavera, l’aveva talmente colpita da spingerla impulsivamente a organizzarsi per andare a far visita al maestro intagliatore. Una scelta che aveva meravigliato lei stessa per prima.[31]

1.

“Bene, entra e sentiti come una di casa. Non potrei raccontarti la mia storia se pensassi che sei un’ospite che viene da Tokyo”,[32] così l’anziano maestro accoglie la scrittrice, iniziando il suo racconto. La narrazione di episodi della sua vita è intervallata dalla preziosa testimonianza sul ningyō jōruri rurale della sua giovinezza, che ci rivela a sprazzi la visione di un’epoca lontana e felice di un genere teatrale che, nella convinzione del maestro intagliatore, si avviava al tramonto.

A quel tempo il ningyō jōruri era uno spettacolo per il popolo a cui, invece, era proibito l’accesso al kabuki.

Oh, lasciami pensare… bisognerebbe tornare indietro a quando Tokushima era sotto il governo della famiglia Hachisuka 蜂須賀. Gli spettacoli dei burattini erano permessi entro tre leghe dalle loro terre, ma solo quelli. Il kabuki e altri spettacoli simili erano strettamente proibiti. E così, vedi, il teatro dei burattini si diffondeva a macchia d’olio perché delle troupe girovaghe arrivavano fino al nostro villaggio quasi ogni giorno. La gente prese a chiamarle hakomawashi per il fatto che tenevano i loro burattini dentro a scatole che recavano con sé. Generalmente ne avevano sei: un giovane e una fanciulla, una madre e un figlio, un uomo qualunque e un buffone. Con sei burattini erano capaci di mettere in piedi uno spettacolo dignitoso. Portavano le loro scatole sulla schiena e poi, “kachi! kachi! カチカチ”: battendo gli hyōshigi 拍子木,[33] marciavano dritti verso il portale di qualche residenza. Manovravano i burattini da sé, vedi, e intanto recitavano la storia. A volte c’era anche qualcuno che suonava lo shamisen.[34]

Da ragazzo, Kyūkichi, con il suo inseparabile amico Benkichi 弁吉, “pazzo per il teatro”, giocava a fare hakomawashi, a scuola, sotto il banco, di nascosto dal maestro, e a casa, cucendo i costumi da solo e iniziando ad allestire piccoli spettacoli per i vicini di casa fra i quali trovava sempre qualcuno disposto a patrocinare la sua arte:

Anch’io avevo i miei patroni. Sì, a quei tempi dovevi avere un mecenate (hīki 贔屓), come lo chiamavano allora, per entrare nel mondo del teatro. Beh, io contavo sulla giovane moglie della porta accanto, su sua figlia e su tutti gli altri bambini del vicinato. Mi portavano tutti qualcosa ‒ un pezzo di stoffa per un sipario, per dire ‒ o qualunque cosa che potessi usare per i miei spettacoli.[35]

2.

All’epoca della giovinezza di Kyūkichi i tre artigiani fabbricanti di burattini della regione erano Dekochū 人形忠, Tsunezō 常三 di Ōe 大江 e Tomigorō 富五郎, conosciuto anche come Dekotomi 人形富, che sarebbe diventato il suomaestro.

Quando aveva quindici o sedici anni venne a Kyūkichi l’idea di diventare intagliatore di burattini. A quel tempo, nel villaggio, tutti avevano una passione per il jōruri. La gente seguiva le troupe di villaggio in villaggio e c’era sempre chi si dilettava nell’imparare a praticare il canto jōruri per puro diletto e non per ricavarci un guadagno. A quei tempi c’erano più di trenta teatri di ningyō jōruri nella sola regione di Awa, racconta il vecchio artigiano. Ogni villaggio aveva il suo teatro rurale o nōson butai 農村舞台, allestito dai contadini nel tempo libero, con semplici stuoie e una tettoia in paglia, sufficiente se c’era bel tempo. A volte il signore del luogo faceva allestire spettacoli nella sua proprietà e allora duravano ben tre giorni.

A causa della salute cagionevole che gli impediva un lavoro più dinamico e per i buoni uffici di una vicina che apprezzava i suoi primi esperimenti come burattinaio, Kyūkichi, a sedici anni, è accompagnato dal padre alla bottega-laboratorio di Tomigorō per iniziare il suo apprendistato come intagliatore di kashira. Un apprendistato destinato a durare dieci anni. Il maestro[36] era un uomo di poche parole, pignolo per i dettagli.

Quando devi servire un maestro ‒  e suppongo che sia lo stesso in qualsiasi campo ‒  devi provare di avere del valore prima che tu possa iniziare a imparare l’arte del tuo maestro. […]

Ricevevo un salario, ma non saprei dirti a quanto corrisponderebbe oggi. Suppongo sia attorno ai venti sen. Che mi ricordi, ero pagato a Obon e a Capodanno. Ma a parte questo non ricordo di aver ricevuto altro da parte del maestro ‒  fossero denaro o lodi. Non era come oggi. Certo, il maestro poteva dire una cosa come: “Ehi ragazzo, lavori sodo!” Ma questa era la cosa più vicina a un complimento che potevi avere.[37]

È in quegli anni dell’adolescenza che il giovane apprendista sviluppa una passione per il kendō 剣道 a cui dedica tutto il suo risicato tempo libero. Ma è un interesse destinato a sfumare in breve tempo dopo che un cliente affezionato di Tomigorō, che seguiva con favore i suoi inizi, arriva a rimproverarlo aspramente con un’osservazione in apparenza casuale: “Il tuo stile di intaglio non è migliorato molto, vero?”. Così Kyūkichi si rende conto che un uomo può dedicarsi totalmente a una sola occupazione, abbandona il kendō e a poco a poco la sua tecnica migliora. “Penso che ci sia differenza quando metti il cuore in quello che fai. Ero così dedito ai ningyō che in un anno ottenni dei miglioramenti che in generale si raggiungevano in cinque”.[38] Anche il cliente che l’aveva rimproverato se ne rese conto e quando tornò gli promise che il prossimo lavoro l’avrebbe commissionato a lui e non al suo maestro: “Se metti tutto te stesso nel tuo lavoro, intensamente, allora la gente se ne accorgerà”.[39]

Dopo quasi dieci anni di apprendistato, il giovane intagliatore ha ventisei anni quando il maestro lo rilascia.

Rievocando il lavoro del suo maestro a distanza di decenni, Kyūkichi ne loda la perizia tecnica ma osserva disincantato che i suoi ningyō non avevano vita.

Avresti potuto chiedere a qualsiasi burattinaio, in qualsiasi teatro, e ti avrebbe detto che i burattini di Tomigorō erano i più facili da manovrare. Tomigorō metteva tutto ciò che sapeva nel far sì che i meccanismi interni del burattino fossero fatti alla perfezione ‒  nel modo in cui erano stati fatti per secoli ‒  ma, vedi, non importa quanto vicino fossero i suoi burattini alla tradizione, non importa quanto agevolmente abbiano trasformato anche le acrobazie più complicate ‒  quando si veniva alla potenza nel volto del burattino, ebbene, potrei dire che non erano più che ordinari. E suppongo che sia per questo che la gente spesso diceva che i suoi ningyō non riuscivano ad avere vita sul palcoscenico. Ora, qui, sto parlando così ‒  ma è perché sono appena arrivato a capirlo da solo, ora che ho raggiunto quest’età.

Vedi, l’arte è tradizione. È lo stesso quando si tratta di intagliare burattini. Se devi intagliare il signore Hangan 判官,[40] lo intagli nel modo in cui la tradizione ti dice che deve apparire. E se devi intagliare Yuranosuke 由良助,[41] lo intagli seguendo la tradizione per Yuranosuke, il modo in cui è stato intagliato per secoli. Ma cosa accade all’arte quando si fa allo stesso modo per secoli e secoli? Ai vecchi tempi la gente faceva le cose in un certo modo perché gli sembrava naturale.

Ma ora abbiamo raggiunto il punto in cui stiamo solo copiando il modo in cui le cose sono state fatte molto tempo fa, senza capire davvero perché, e finché stiamo solo copiando, non ha molto senso per noi. Anni fa la gente viveva con un obiettivo in mente, e una volta raggiunto quell’obiettivo, beh, erano pronti a morire.

“Ma ora, se non punti gli occhi sempre più in alto e miri ad andare oltre qualunque obiettivo ti sia prefissato, potresti anche andare avanti e morire, e di sicuro non avresti alcun diritto di parlare di arte. Ma, vedi, non sono arrivato a capirlo fino a quattro o cinque anni fa ‒  e me ne sono reso conto quando ho finalmente notato che la gente non veniva più alle rappresentazioni di burattini.[42]

3.

In quello che lo stesso Tenguhisa chiama “terzo atto”, il maestro artigiano si lascia andare a alcune considerazioni sull’arte. Dopotutto, la sua intera esistenza non è stata dedita altro che al lavoro, o meglio, come precisa, all’intaglio di teste di burattini. Ricordando Hidari Jingorō 左甚五郎, un celebre scultore del XVI secolo che aveva lavorato al Tōshogū 当初宮 di Nikkō 日光, Tenguhisa parla di coloro che si dedicano a perfezionare la propria arte sino alla morte perché ci sono persone tutte tese a migliorarsi, combattendo finché hanno respiro. Si domanda se non sia proprio in questo che viva l’arte perché “se pensi che sia abbastanza mentre sei ancora in vita, quella allora per te è la fine”.[43]

In maniera ondivaga il vecchio maestro prosegue la narrazione della sua vita: a ventisei anni era stato adottato come genero da un mercante di sōmen 素麺,[44] Yoshioka Utarō 吉岡宇太郎, ne sposa la figlia e va con lei e con la figlioletta appena nata a vivere poco lontano dalla casa del suo oyakata, la stessa modesta abitazione dove trascorrerà il resto della sua esistenza, lavorando seduto davanti al basso deschetto. Mancavano pochi mesi, forse due o tre, alla scadenza del suo contratto ma Tomigorō lo lascia libero ed egli se ne va, portando con sé solo il cesello che aveva usato per tanti anni e pochi altri utensili (dopotutto era uno shokunin 職人, un artigiano),[45] insieme a qualche cliente che decide di dargli fiducia, come usava all’epoca.

Forse a questo punto Chiyo gli chiede della sua arte (le sue parole non sono riportate) perché Tenguya riprende a parlare dei ningyō e di come appaiono diversi se visti immobili o sul palcoscenico e questa è una cosa per lui sommamente interessante nell’arte dell’intaglio: gli occhi, la bocca, il naso del burattino sono più grandi di quelli di un essere umano ma sarebbe un guaio se così non fosse perché non potrebbero essere visti dal pubblico: “Il burattino che vive sulla scena e quello che vedo qui nelle mie mani mentre lo intaglio, sono burattini diversi in mondi diversi. Ho imparato a concentrarmi su come il burattino apparirà sul palcoscenico”.[46]

Il vecchio artigiano preferisce intagliare personaggi principali di un dramma, come Yuranosuke in Kanadehon Chūshingura 神田本忠臣蔵, perché la sfida è crearlo affinché il pubblico lo identifichi proprio con Yuranosuke, come se non potesse essere scolpito in nessun altro modo. Un compito non facile. I personaggi femminili sono più semplici da intagliare, mentre quelli maschili hanno meccanismi complicati per muovere bocca, occhi e sopracciglia e quando nella testa vengono inseriti i meccanismi, il burattino che ne risulta può essere diverso da quello che l’intagliatore aveva in mente prima di iniziare il lavoro. Ma quando le cose vanno bene, non importa quanto siano ben fatti i meccanismi: questi non hanno molto peso sul risultato finale, ciò che importa davvero è lo spirito (kokoro 心) che viene infuso nel volto del burattino e questo viene deciso nel momento in cui il suo artefice prende in mano il pezzo di legno e fa la prima incisione. Poi Tenguhisa aggiunge che tutto sommato anche i meccanismi hanno la loro importanza ed è meglio farli da sé perché in definitiva hanno anch’essi qualcosa a che fare con lo spirito del burattino. Lo spirito del burattino è importante: possono esserci due ningyō uguali che rappresentano lo stesso uomo di quarant’anni e di ricchi natali, eppure uno è di bell’aspetto e l’altro appare meschino. Ciò che li differenzia è lo spirito che li pervade fin dal momento del primo colpo di cesello.[47]

A questo punto la voce di Chiyo irrompe nel testo con alcune considerazioni su Tenguhisa e sulla sua vita. Perennemente irrequieta, la scrittrice è colpita dalla straordinaria dedizione del maestro al suo lavoro, da quella disciplina personale per lei insolita, un’autodisciplina che lo costringe nella stessa posizione da quasi settant’anni,[48] il cesello in mano, davanti al tavolino, mettendo tutta la cura e la propria anima nel suo lavoro. Cerca di immaginare cosa possa voler dire fare lo stesso lavoro per settant’anni e già il solo pensarci la colpisce con un’emozione indicibile.[49]

Sposatosi a ventisei anni, e da allora ‒ ossia da quasi sessant’anni ‒ vissuto nella stessa casa, fermo sullo stesso tatami, circondato dagli stessi shōji usurati, di fronte alla solita, vecchia strada: inconcepibile, per Chiyo, che questo capiti a una persona non per disciplina religiosa, ma per scelta. Una scelta naturale, però, per chi abita in campagna. La scrittrice cerca di immaginarsi come doveva essere ai vecchi tempi, quando la vicina fabbrica di cotone era in funzione e le giovani operaie all’uscita sciamavano tutt’attorno, cantando le canzoni allora di moda. Le sembra quasi di udire le loro voci.

La sua revêrie è interrotta da un’improvvisa osservazione del maestro: è solo questione di tempo e il ningyō jōruri sparirà. Pur convinto di questo Tenguhisa continua a dedicarsi totalmente a quest’arte morente, maturando la profondità della propria passione. Non più preoccupato di guadagnare denaro come quando era giovane, ora gli basta fare un buon burattino. Come? Non sa come spiegarlo. Solo, quando si siede a intagliare, le sue mani sanno come fare. E forse è così per tutti i ningyōshi come lui. Ma comunque sia, dopo aver finito un burattino, pur buono, si dice che il prossimo sarà meglio. Solo la morte metterà fine a tutto. “Mette fine all’arte”.[50]

4.

Rispondendo alla domanda della sua interlocutrice, il vecchio maestro spiega la scelta del nome Tenguya per la sua bottega, un’idea suggeritagli da una maschera di tengu[51] dipinta sugli shōji sulla facciata del laboratorio. Pur autorizzato a fare proprio il nome professionale del suo maestro, Wakamatsuya 若松屋, Kyūkichi considerava che il nome Tenguya fosse più interessante e così lo adottò. Chi passava di lì e vedeva l’insegna ironizzava sulla fama di spacconi bugiardi di cui godevano i tengu. Del resto, chi si occupa di teatro dei burattini un po’ spaccone lo è, osserva l’anziano maestro, con l’umorismo che lo contraddistingue. Al nome di Tengu era stata aggiunta in facciata l’espressione “Sekai ichi 世界一”,[52] forse un po’ esagerata, ma presto le persone che passavano si rendevano conto che Tenguya è davvero il migliore fra gli intagliatori di burattini. Ma aggiunge, con la sua tipica attitudine modesta di artigiano, che non è un maestro “ma solo l’unico fabbricante di burattini nei dintorni”.[53]

Dietro la piccola casa-atelier c’è un piccolo giardino che la gente del posto chiama Tenguen 天狗園 ossia “il giardino di Tengu”. Lì il maestro coltiva i suoi amati crisantemi da quarant’anni ma ci tiene a precisare che questo non lo ha mai distratto dal suo lavoro. Nonostante chi lo vede in giardino intento a curare i fiori sostenga che ne è totalmente assorbito, Tenguhisa spiega a Chiyo che questa è la sua attitudine in tutte le cose che fa.[54] Ma, anche in gioventù, i suoi passatempi e la sua arte sono sempre stati separati e il suo lavoro è sempre stato al primo posto.

Una domanda di Chiyo lo porta poi a ricordare la moglie, morta sette o otto anni prima ‒  non ricorda bene ‒  e di come lo seguisse nel lavoro, assistendolo e ricoprendo le kashira con la carta per poi dipingerle. Ricorda come gli rimboccasse le coperte, la notte, aspettandolo sveglia quando faceva tardi per finire un lavoro. Ricorda, con un certo ritegno, il dolore della sua perdita.

Quasi una voce fuori campo, Chiyo interviene con osservazioni sulla memoria altalenante di Tenguhisa, incerto sia sulla morte della moglie che sui nomi delle tre figlie (Shigeri しげり, Yoshie よしえ e Katsuno かつの[55]). La sua memoria si è offuscata ma forse non è solo quello. La scrittrice osserva in lui come una sorta di riluttanza a parlare del passato, paragonandolo a un vecchio albero secco da cui se ne sono andate tutte le foglie. Quello di cui vuole parlare è della sua arte.[56]

5.

Tenguhisa ora ricorda gli anni gloriosi della fioritura del teatro dei burattini, l’epoca fra il 1880 e il 1890, quando aveva fra i trenta e i quarant’anni. Il ningyō jōruri era sempre stato più vivace nel Giappone occidentale che nella regione di Tōkyō. E, del resto, era stato a Shikoku che aveva avuto origine. A meno di venti leghe da qui ‒ racconta il maestro ‒ quattro villaggi si contendono il titolo di luogo natale dei primi hakomawashi.[57] Da lì provenivano un centinaio di burattinai girovaghi. Costretti da un territorio montuoso e avaro a cercare un’occupazione diversa da quella del contadino, partivano con le loro scatole di pupazzi. E osserva con amarezza che ora i pochi che lo fanno si vergognano, eppure sente che a loro quella vita piace, proprio come piaceva un tempo a chi li ha preceduti.

I ricordi si affastellano. Durante la guerra russo-giapponese (1905) la vita era molto dura. Tenguhisa, la moglie, di cui non cita mai il nome, e la figlia maggiore, Shigeri, partono per Ōsaka in cerca di lavoro: fabbricheranno ikiningyō 生人形,[58] bambole a grandezza naturale, per i misemono 見世物 dell’epoca, spettacoli da fiera molto apprezzati popolarmente sin dal periodo Edo.

Fra i ricordi dei mesi seguiti alla fine della guerra, ne emerge uno con maggior chiarezza: è la memoria dell’incendio del teatro rurale di Yawatahama 八幡浜, nella prefettura di Iyo 伊予, bruciato in seguito allo scoppio incontrollato di una miscela di polveri piriche usate per un effetto di scena. Anche Tenguhisa e sua moglie erano accorsi per contribuire con il loro lavoro alla ricostruzione del palcoscenico e dei ningyō andati tutti bruciati.

A volte il lavoro al laboratorio non mancava e allora erano la moglie e la figlia di Tenguhisa ad andarsene al seguito di compagnie itineranti, impegnate a ridipingere i volti e a riparare le parrucche dei burattini, lavori all’epoca considerati più adatti alle donne che non l’intaglio del legno.

A quei tempi i palcoscenici erano allestiti sui letti dei fiumi, luoghi tradizionalmente deputati agli spettacoli all’aperto. Ma quando pioveva niente spettacolo e niente cibo per i burattinai. Ecco perché si diceva “Niente cibo quando piove”. Certo, se si godeva il favore di qualche generoso patrono, allora ci si poteva aspettare una piccola somma anche quando la pioggia costringeva a chiudere il teatro. Ma se si era sfortunati e le cose iniziavano ad andar male, allora ogni cosa andava storta.

Gli ingressi agli spettacoli costavano due sen per gli adulti e uno per i bambini ma, dopo la guerra con la Russia, altri divertimenti erano arrivati in città e il ningyō jōruri doveva competere con le ballate naniwabushi 浪花節, il nuovo teatro riformato o kairyōshibai 改良芝居 [59] e lo shinpa 新派[60] e anche con il cinema,[61] che iniziava poco a poco a farsi conoscere.

Capitava anche che Tenguhisa si aggregasse a troupe girovaghe e anche nei giorni di magra riusciva a essere pagato per il suo lavoro e se c’era chi gli commissionava un burattino e poi non veniva a ritirarlo, immancabilmente dopo qualche giorno si presentava qualcuno interessato ad acquistarlo. Questo lo aveva spinto a non rinunciare mai al suo lavoro, neppure in tempi duri. Si era ripromesso di continuare a lavorare qualunque cosa accadesse[62] e quando non intagliava kashira, allora creava maschere o bambole ornamentali o giocattoli o qualsiasi cosa potesse procurare un piccolo introito.

C’erano stati lunghi periodi di scarso lavoro e di miseri guadagni. Così il nipote, l’erede della famiglia, aveva deciso di entrare in ferrovia, per garantirsi un futuro più sicuro. E in questo modo la catena di trasmissione dell’arte da padre in figlio[63] era destinata a spezzarsi.

6.

La religione? Il vecchio maestro spiega alla sua interlocutrice che si reca tre volte al mese al tempio shintō di famiglia: il primo, il quindici e il ventotto del mese. Ma rivela anche che è quando intaglia i suoi ningyō che sente di pregare i kami.[64] “Dove la mia abilità finisce, quando non posso andare oltre, è lì che si trovano gli dèi: essi sono oltre l’umana comprensione”.

Tenguhisa confida a Chiyo che quando inizia a scolpire un burattino gli sembra di avere chiaro in mente come debba apparire ma ogni volta ha l’impressione che manchi qualcosa ed è in questa parte mancante che risiede il divino.

La sua riflessione torna così a concentrarsi sulla propria arte. Racconta allora di come la difficoltà di intagliare un burattino stia nel fare in modo che prenda vita sulla scena ma che, al tempo stesso, si accordi con la storia che viene rappresentata. Ogni ningyōshi dovrebbe avere in mente questo ma, dalla sua esperienza, si è fatto l’idea che la maggior parte dei burattini che ha visto sia ordinaria.

Non sempre ciò che l’artista si ripromette di realizzare quando dà il primo colpo di cesello soddisfa le sue intenzioni: quello che doveva essere nelle intenzioni un guerriero feroce può risultare alla fine un personaggio meschino. Forse, osserva il maestro, tutto sta, quando inizi un lavoro, nell’avere un atteggiamento umile, lo stesso che si ha quando si pregano i kami. Tenguhisa pensa prima a come dovevano essere i sentimenti che agitavano il personaggio e poi inizia a intagliare e mentre lavora il legno pensa al modo in cui debba farlo per ricavare il volto che si riprometteva di realizzare.

Ricorda ancora che in un dramma per burattini si utilizzano a volte teste diverse per un unico personaggio, cambiandole a seconda della scena. Per esempio Kumagai,[65] valente guerriero, avrà una testa con un’espressione piena di coraggio nel secondo atto, e un’altra, carica di dolore per aver ucciso il giovane Atsumori,[66] nel terzo. E un tempo i veri conoscitori del ningyō jōruri erano in grado di specificare il tipo esatto che desideravano far eseguire all’artigiano.

È il modo in cui si intaglia il legno a determinare l’età, il genere, il rango e anche il sentimento che caratterizza una testa. È una cosa difficile da spiegare ‒  e forse chiunque può riuscire a sbozzare in qualche modo una testa ‒  ma se non si tengono presenti le differenze determinate dall’età, dalla classe sociale, ecc. e non si segue la tradizione che è stata trasmessa attraverso le generazioni, nessuno acquisterà quel burattino.

Che differenza c’è fra un burattino intagliato quand’era giovane e un burattino intagliato dopo anni di esperienza? Tenguhisa ricorda un episodio avvenuto poco tempo prima della visita di Chiyo: una troupe cinematografica si era presentata per girare un documentario su di lui e lo aveva ripreso mentre iniziava a intagliare un blocco di legno.[67] I mesi erano trascorsi, il burattino era terminato ed era arrivata in zona la compagnia di ningyō jōruri di Gennojō, una delle ultime rimaste nella regione. Il regista voleva filmare il nuovo burattino all’opera in un dramma ma i membri della troupe di Gennojō dichiararono che preferivano utilizzare un burattino che Tenguhisa aveva realizzato vent’anni prima, perché quando un burattinaio usa per anni lo stesso pupazzo, vi si abitua e vi si affeziona e trova difficile fare un cambio all’improvviso. Non riuscendo a convincere il regista che insisteva con il nuovo ningyō, i burattinai presero il Kumagai che Tenguya aveva intagliato tanti anni prima e lo misero accanto al nuovo: sorpreso, dovette constatare che erano identici.

In che cosa differivano, allora? Spiega l’anziano maestro: “Sono diversi nel mio cuore”.[68] E aggiunge: “So che c’è una differenza ma non so spiegarlo. Forse solo gli dèi possono capire”.[69]

Il ningyōshi deve seguire la tradizione ma deve anche badare che il suo spirito sia in accordo con essa e che i suoi burattini abbiano vita. Ma come dar vita ai burattini, questo l’anziano maestro non sa spiegarlo: forse capita lo stesso in ogni arte ed è convinto che quello che non sa con la mente, lo sente con il cuore.

Tenguhisa confida a Chiyo che quando incontra una persona ne studia il volto per scoprire a quale tipo di burattino assomigli. Il più delle volte lo fa inconsapevolmente, per una sorta di deformazione professionale. E allora un giorno si è messo a studiare l’arte di predire il futuro, quella che si fonda sulla fisiognomica, arrivando a immaginare di poter fare l’indovino ma un indovino non sa predirsi la buona fortuna… È questo uno dei momenti in cui il vecchio maestro dà prova del suo umorismo, stemperando così il suo racconto in un sorriso.

Riprendendo il discorso, passa poi a parlare di ciò che secondo lui caratterizza lo stile di un ningyōshi: il modellato delle orecchie. Non ne esiste una gamma definita per tipo di testa. Alla fine, che il personaggio sia buono o che sia cattivo, le orecchie saranno intagliate allo stesso modo: è quel tocco leggero del cesello, il kogatana 小刀, che rivela la “firma” dell’artista intagliatore.

7.

Sollecitato sull’argomento dalla sua interlocutrice, Tenguhisa parla delle tre figlie la maggiore delle quali, Shigeriしげり, vive con lui, e del genero, Kaname 要, figlio di un mercante di sake, che aveva adottato come erede e che è morto prematuramente, troppo presto perché potesse farsi un nome. È a questo punto che inizia a spiegare il proprio metodo di insegnamento. L’apprendista deve tentare di imitare il lavoro del maestro osservando accuratamente le kashira che questi ha intagliato nel tempo, e, a mano a mano che procede, il maestro interviene lodando o disapprovando il lavoro e mostrando con il suo esempio come fare. Le parole possono ferire e quindi evita il più possibile di parlare seguendo l’insegnamento di suo padre che gli raccomandava di non dire nulla a nessuno criticandone o lodandone il lavoro.

Comunque gli unici apprendisti che abbia mai avuto sono Kaname e suo nipote Benkichi 弁吉 con cui ha ormai interrotto i rapporti per ragioni che non spiega. Anche l’altro suo nipote, Osamu 治, figlio di Kaname, sarebbe dovuto diventare suo erede. Qui il maestro si interrompe per aggiungere un episodio al suo racconto: si tratta del suo incontro con il principe Nashimoto 梨本の宮 che, in visita a Tokushima, aveva voluto vedere da vicino il suo lavoro. L’aveva fatto avvicinare e gli aveva chiesto di mostrare i movimenti del burattino che aveva portato: per Tenguhisa un vero onore, quello di poter mostrare la sua opera a un’altezza imperiale. Il governatore della regione, colpito dall’apprezzamento del principe, lo aveva allora esortato a scegliere presto un erede a cui poter trasmettere la sua arte.

Così Osamu aveva iniziato a intagliare burattini, ma mostrando scarsa capacità e senza avere alcun desiderio di portare avanti l’attività.

Ora l’unico ningyōshi della zona rimasto era proprio il nipote con cui aveva interrotto i rapporti, Benkichi.

Il maestro si sofferma poi sulla relazione con gli altri fabbricanti di ningyō che un tempo operavano nei dintorni: Dekochū 人形忠 della bottega Fukuya 福屋 e Dekotsune 人形常 (conosciuto anche come Tsunehan 常はん) a ovest. Non esistevano fra di loro sentimenti di rivalità perché ognuno di loro lavorava per committenti diversi anche se, naturalmente, ognuno avrebbe voluto essere il migliore. Ricorda ancora il suo collega Dekochū, celebre non solo per il suo talento: suo padre, infatti, era stato esiliato per qualche tempo per un reato forse di poca importanza ma un tempo punito severamente. Rientrato a casa ma privato della possibilità di usare il proprio nome, continuò a lavorare, firmando sempre le sue teste con il nome del figlio, suo erede, anche quando questi era infante. Fu così che il nome di Dekochū si diffuse ancor prima che chi lo portava iniziasse a lavorare.

Anche Umanose Komazō 馬の背駒三 era un ningyōshi conosciuto e apprezzato a quei tempi. Nessuno lo eguagliava nell’intagliare personaggi valorosi e pieni di dignità.

La scrittrice interviene fuori campo per osservare come, a volte, giungano ospiti per scambiare qualche chiacchiera e bere insieme al maestro una tazza di tè mentre, nel frattempo, Tenguhisa, seduto tranquillamente davanti al suo deschetto, seguita a lavorare con calma.

Accanto a lui è un braciere su cui sono posati un recipiente pieno di colla messa a scaldare e una teiera sempre piena di tè forte, la sua bevanda preferita.

Pur non amando socializzare, l’anziano artista ha qualcosa che mette le persone a proprio agio, osserva Chiyo. Egli non si cura delle piccole cose che fanno gli altri. E se qualcuno gli chiede dei crisantemi che cura nel piccolo giardino dietro la casa, lo invita coglierli da sé per poi tornare subito a concentrarsi sul lavoro.

L’espressione del maestro è sempre caratterizzata dalla quiete perché egli ha deciso di non arrabbiarsi mai con nessuno.

Ma quando è completamente assorbito dal suo lavoro la sua espressione cambia, il suo volto è come una maschera di pietra.

“Questo volto, né vecchio né giovane, è senza tempo. Realmente bello”.[70]

Chiyo nota che da giovane doveva essere un bell’uomo e, del resto, il vecchio maestro durante una delle loro chiacchierate aveva osservato che il tempo della fioritura c’è anche per tutti [gli esseri umani], come per il pino e per ogni cosa.[71]

8.

A Tenguya piace mantenersi in forma, almeno per quel che l’età gli consente e questo seguendo la passeggiata quotidiana e gli esercizi di stretching a letto prima di alzarsi e durante la giornata che costituivano la prassi quotidiana di suo padre, a cui era particolarmente legato. Parlandone, l’anziano maestro si commuove. Chiyo osserva come abbiano parlato di tanti argomenti diversi nel corso delle loro conversazioni quotidiane ma questa è la prima volta che lo vede in lacrime e nonostante si sappia che le persone anziane si commuovano facilmente, solo un’altra volta la scrittrice aveva visto il maestro così commosso. Era stato quando qualche giorno prima il maestro aveva ascoltato alla radio Koutsubohan 古靭はん[72] recitare il Kanadehon Chūshingura. Il brano in cui, nel terzo atto, il signore Hangan, in procinto di compiere il seppuku 切腹 a cui è stato condannato, chiede notizie del suo capovassallo, Yuranosuke, perché vorrebbe dirgli addio, aveva commosso l’anziano maestro fino alle lacrime. E ancora piange, rievocando quel momento davanti a Chiyo la quale è sopraffatta dall’emozione.

Di tanto in tanto arrivano alla bottega di Tenguya ospiti illustri di passaggio: un banchiere di Tōkyō, un ispettore scolastico e così via. Impegnano il maestro con una serie di domande sui temi più disparati ma spesso gli chiedono chi siano le persone che ammira di più o quali siano stati i momenti più interessanti della sua vita.

Alla prima domanda Tenguhisa risponde da par suo, secondo l’etica che ha accompagnato tutta la sua vita: “Ammiro coloro che si concentrano su una cosa e cercano sempre di farla meglio. Non fa differenza se carpentieri o contadini, se passano la loro vita alla ricerca della conoscenza.”.[73] Rievocare il periodo più interessante della sua esistenza porta poi Tenguya a un lungo viaggio nella memoria dei giorni del crollo dello shogunato e dell’inizio di una nuova era. Che qualcosa stesse cambiando lo si sentiva anche al villaggio quando fu attraversato dalla corrente danzante di donne, uomini, vecchi, bambini, in maschera o truccati, mangiando, bevendo, cantando, saltando: “eejanaika ええじゃないか” urlavano.[74] Kyūkichi, incantato, li avrebbe volentieri seguiti nel loro trascinante andare ma, essendo un bambino, era riuscito solo a inseguirli fino al villaggio vicino. Alcuni indossavano solo un fundoshi 褌 (perizoma) e non possedevano nulla, eppure si stavano recando in pellegrinaggio al santuario di Ise 伊勢, danzando e scherzando. Una visione galvanizzante.

Si raccontava che un’improvvisa folata di vento avesse fatto spargere per tutto il vicinato i preziosi ofuda お札 (talismani di carta) di una casa dei dintorni tutta aperta per le pulizie di primavera. E si raccontava che, vedendo arrivare questi talismani dal cielo, alcuni lo interpretassero come un prodigio del cielo e una manifestazione delle sue benedizioni. Era accaduto in ogni parte del Giappone ed era avvenuto anche lì, da loro, a Wada. Le persone danzavano accogliendo con gioia quei segni divini: sarebbe andato tutto bene. E poi la battaglia di Toba-Fushimi 鳥羽伏見[75] aveva posto fine a tutto.

Lo sguardo del vecchio maestro sembra lontano, come se stesse rivivendo quei giorni, ben presenti nella sua memoria.

A questo punto Chiyo ricorda che un giorno, arrivata alla bottega, vede il maestro fermo al deschetto ma assente. Non risponde al suo saluto ma sembra borbottare dentro di sé. Non è una buona giornata per lui. Qualcuno arriva dalla casa e lo accompagna a letto lasciando sola la scrittrice a domandarsi cosa stesse accadendo, in preda a una ridda di emozioni e timori. Poi qualcuno torna e le spiega che Tenguhisa a volte ha bisogno di riposare e quando ha dormito ne riemerge come rinfrancato e in forze. Così accade, infatti, e, tornato al tavolo di lavoro, Tenguya riprende la sua narrazione come se niente fosse, sul volto di nuovo il sorriso gentile che la sua interlocutrice ha imparato a conoscere.

Il maestro riprende con le sue considerazioni sulla vita e sulla morte. Ritorna ancora una volta sulla propria convinzione che sia importante lasciare dietro di sé qualcosa che la gente apprezzi e per questo si ripromette di lavorare fino alla fine. Solo così, secondo lui, sarà in grado di affrontare la morte, quando sarà, senza alcuna paura. È consapevole del tempo che si sta avvicinando ma spera di avere davanti a sé ancora un anno o due.

Non sa se ci siano luoghi come un paradiso e un inferno ma è convinto che, comunque, la strada sia lunga per arrivarci e sa che dovrà andare avanti, guardarsi attorno per vedere com’è e, se sarà un buon posto, si volterà e chiamerà sua figlia affinché lo raggiunga. Ma chissà se riceverà il messaggio, si chiede, con lo spirito ridente che gli è proprio.

9.

Il giorno prima della sua partenza, la scrittrice ritorna a trovare l’anziano maestro per un’ultima conversazione e questa volta sono i ricordi del teatro di un tempo a riempire i loro discorsi. Nelle parole di Tenguhisa prendono vita le immagini dei teatri rurali, della passione che animava tutti. Al trapianto del riso o al raccolto, all’arrivo della primavera e a ogni cambio di stagione: ogni occasione era buona per festeggiare e per celebrare i kami con uno spettacolo teatrale. Cantori e burattinai erano tutti giovani e agli anziani era richiesto solo che andassero a godersi lo spettacolo. Il teatro era pieno di ragazze e di ragazzi, ricco di vita.

Ora tutti vanno pazzi per il cinema: tutto quello che si deve fare è semplicemente sedersi al buio e guardare lo schermo e le ragazze oggi sono così abituate al cinema che non riescono più a capire il linguaggio vecchio stile del teatro dei burattini.

Tornare a teatro, per il vecchio artigiano, come gli era capitato l’estate precedente, era rendersi conto che i vecchi amici con cui si ritrovava un tempo non c’erano più, che le cose erano definitivamente cambiate. Solo la signora Ino 伊之はん, ultranovantenne, continuava ad amare il teatro e ad andare agli spettacoli.

Nella regione di Tokushima operano ancora varie troupe di burattini ma le migliori sono sempre quelle di Gennojō e Rokunojō che utilizzano, per la maggior parte, i burattini creati da Tenguhisa. Ora, quando osserva i propri burattini muoversi in scena, non si mette più a borbottare fra sé criticando il proprio lavoro di un tempo: un intaglio imperfetto qui, una proporzione sbagliata là. No, non è più da lui. “ Vado solo a teatro e guardo lo spettacolo come chiunque altro”.[76]

Tenguhisa ricorda ancora com’era fare teatro nel mondo rurale: “Ai vecchi tempi allestivano spettacoli in un campo. Iniziavano attorno alle sette del mattino e andavano avanti fino a che faceva buio. Una volta che il sole era tramontato, prendevano dei ceppi e li impilavano per fare un falò. Spesso i volti dei burattinai si annerivano a causa della fuliggine. Ah! E le ragazze del villaggio accorrevano zoccolando sui sentieri dei prati insieme a gruppi di giovani per recarsi a vedere lo spettacolo”.[77]

Awa Ningyō (foto R. Marangoni)

Epilogo

Erano passati dieci giorni esatti dalla prima visita di Uno Chiyo alla bottega di Tenguya. Al momento dell’addio, il maestro interrompe brevemente il suo lavoro e si volta a guardarla: “Tu e io…. Fra di noi c’è così tanta differenza di età che quasi non riesco a immaginarlo, ma ogni giorno abbiamo condiviso il tè e delle storie come due vecchi amici. Bene, non so se ci rivedremo ancora”.[78]

Finito il lungo racconto di Tenguhisa, è tempo per Chiyo di tornare a Tōkyō, non prima, però, di approfittare dell’occasione dell’arrivo al villaggio della troupe di Gennojō per assistere a uno spettacolo al teatro locale e per vivere direttamente l’atmosfera del ningyō jōruri rurale che, con la sua ritualità e il suo pubblico, è così diverso dal mondo elegante e distaccato del bunraku di Ōsaka.

A teatro, però, dovrà andarci da sola perché Tenguhisa rifiuta il suo invito ad accompagnarla: per lui si tratterebbe forse solo di un malinconico spettacolo, vissuto con il presentimento di un declino, della fine incombente di un mondo. E di un’arte, la sua arte.

Ma nondimeno la scrittrice lo sente al proprio fianco e, preparata dalle conversazioni con il maestro, osserva attorno a sé quello che vede e ce ne regala una vivace descrizione. Pur sapendo cosa aspettarsi, è sorpresa dal fatto che sedute per terra davanti al palco ci siano solo persone anziane. Nota una monaca e un gruppo di vecchi signori, forse un tempo amministratori locali, ma per lo più si tratta di donne e uomini semplici, venuti dai villaggi, con i loro kimono tessuti a mano, gli involti che nascondono le pile di bentō con gli spuntini, gli ombrelli di carta oleata. Chiacchierano vivacemente fra di loro mentre seguono ciò che avviene sulla scena e che forse ben conoscono, bevono del tè da vecchie bottiglie, masticando mochi rumorosamente, a un ritmo che ricorda alla scrittrice quello dei bachi da seta sulle foglie di gelso.[79]

Sul palcoscenico i burattini sono grandi e richiedono un gran dispendio di energia da parte dei loro manovratori. Avviene a Uno Chiyo ciò che capita a tutti coloro che si trovano davanti a uno spettacolo di ningyō jōruri per la prima volta. Se all’inizio è perplessa da quello che vede sulla scena, poco dopo, quasi inconsapevolmente, cessa di vedere i burattinai ed è assorbita dal dramma. La scena è quella in cui Kumagai Naozane,[80] avendo catturato Atsumori, si accorge che il suo nemico è un affascinante giovane: “Mi ritrovai in lacrime quando il tayū cantò il verso ‘Egli brandì la spada ma ‒  meraviglia ‒  sotto l’armatura un volto come un gioiello.’ Che potere possiede quest’arte, pensai, se può commuovere fino alle lacrime anche qualcuno che, come me, ne è lontano”.[81]

Era un giorno di pioggia, di quelli chiamati in campagna ame furi yasumi 雨降りやすみ, “vacanza di pioggia”, perché non ci sono altri lavori da fare nei campi in giorni così, dopo la semina. I paesani si erano messi in marcia verso il teatro al mattino presto, tenendo alti i loro ombrelli di carta, gli involti del cibo sulle spalle.

“Mentre sedevo in mezzo a loro, sentivo che stavo assistendo alla morte del teatro dei burattini. Sentivo intorno a me una corrente sotterranea di dolore. Gli altri spettatori, inconsapevoli del fato che attendeva il loro amato teatro, parlavano fra loro con voci elevate e gioiose. Mi domandavo se non fosse questo quello che aveva osservato il vecchio quando era venuto agli spettacoli. Forse era per questo che si era rifiutato di venire con me. Sul treno[82] mentre rientravo a casa, ci pensai a lungo”.[83]

Passano sei mesi e un giorno, a Tōkyō, Uno Chiyo riceve la “sua” Oyumi, il burattino che aveva commissionato a Tenguhisa per sé, incapace di dimenticare quella prima Oyumi che aveva visto a casa dei suoi amici Shimanaka, in primavera. Sentiva che il suo burattino era molto meglio di quello che aveva visto qualche mese prima, anche se in apparenza identico. Ora Chiyo lo sapeva: “La differenza sta nel cuore del vecchio ningyōshi”.

Mentre sceglieva un kimono adatto per abbigliarlo, e cercava un pettine antico da inserire nella sua acconciatura, Uno Chiyo era in preda di una strana sensazione: “Non stavo dando prova, pur se piccola, che i burattini non sarebbero scomparsi? Ero certa che anche il vecchio lo sapesse.”[84]

È con queste parole che si chiude il kikigaki.

Un interesse destinato a durare

L’interesse per il teatro dei burattini restò come punto fermo nella vita della scrittrice anche nel dopoguerra. Il ritorno alla tradizione aveva costituito per molti intellettuali e artisti, durante gli anni bui della “valle oscura” e della guerra, un rifugio, una temporanea via di fuga. Per Chiyo, la moga di un tempo, spigliata e indipendente, aveva rappresentato non solo un conforto, ma anche uno strumento interpretativo della realtà, come ebbe a scrivere in un’occasione: “Arrivò un giorno in cui sentii delle persone dire che il nostro paese era stato perduto. Cosa poteva significare? Ho guardato nel tokonoma i burattini Oyumi e Onoe. Nei loro volti immobili potevo vedere il Giappone. Non ho mai sentito così intensamente come allora cosa sia questo paese, il Giappone.”[85]

Riferimenti a questa predilezione per il ningyō jōruri irrompono spesso nelle pagine della sua vasta produzione letteraria e memorialistica.

Il racconto delle memorie di Tenguhisa guadagnò a Chiyo una nuova reputazione letteraria, quella, nelle parole di Donald Keene, di “meticolosa cronista di uno stile di vita che ancora si nascondeva sotto la moderna superficie del Giappone”.[86]

Chiyo non dimenticò mai quell’incontro a Shikoku. Nel dicembre 1957 fece erigere a proprie spese una stele commemorativa dedicata a Tenguhisa ai piedi del ponte sul fiume Akui 鮎喰川 poco lontano dalla vecchia casa del maestro e sul monumento è inciso un passaggio dal suo Ningyōshi Tenguya Hisakichi.

***

Nel 2002 la bottega del maestro Tenguya Kyūkichi è trasformata in museo, il Tenguya shiryōkan 天狗久資料館, nel quadro di una rivalorizzazione dell’arte del ningyō jōruri nel Kansai e, in particolare, a Awaji e nella prefettura di Tokushima. Il museo riproduce lo stato del laboratorio intorno al 1935, quando la prima e la terza generazione Tenguya, ossia Tenguhisa e il nipote, lavoravano fianco a fianco,[87] e conserva una quarantina di teste e un migliaio di strumenti del maestro designati importanti proprietà culturali popolari tangibili del Giappone.

In una saletta interna della casa-museo è proiettata la pellicola del 1941, dal titolo Awa no mokugu 阿波の木偶, che riprende Tenguhisa al lavoro e di cui il maestro aveva parlato alla scrittrice durante le loro conversazioni.

In questa temperie di riscoperta della tradizione locale dell’arte dei burattini che caratterizza gli ultimi anni nasce il progetto Nobody Knows che mira a far rivivere, attraverso alcune personalità di spicco delle arti performative giapponesi, tradizioni teatrali in declino o dimenticate. Il lavoro di Uno Chiyo è così ripreso e utilizzato come una sorta di canovaccio per la realizzazione, nel 2022, di un docufilm incentrato sulla figura di Tenguya Kyūkichi e diretto da Tsugaoka Keitarō 栂岡圭太郎. La voce della scrittrice (prestata dall’attrice Takaizumi Atsuko 高泉淳子) narra l’arte e la personalità del maestro intagliatore mentre lo vediamo al lavoro davanti al suo deschetto e mentre passeggia nei boschi attorno alla sua casa. Tenguya è interpretato da Maro Akaji 麿 赤兒 (Sakurai, 1943), attore, coreografo e danzatore di butō 舞踏, già allievo di Hijikata Tatsumi 土方 巽 (1928-1986). Akaji mette la sua dirompente personalità artistica al servizio di un umile e tranquillo artigiano, un artigiano ben conscio, però, dell’elevata qualità artistica del proprio lavoro.

Tenguya Kyūkichi e Uno Chiyo rivivono sullo schermo nel nome di un’arte folclorica, quella del teatro dei burattini di Awa e Awaji, sconfiggendo così il timore della sua scomparsa e dimostrando, ancora una volta, che la tradizione in Giappone può sopravvivere sulle spalle della modernità, grazie all’aiuto dei nuovi media e al talento degli artisti ‒  il tutto tenuto insieme da quel potente collante che è la nostalgia.

Awa Ningyō (foto R. Marangoni)

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Appendice:

Keisei Awa no Naruto 傾城阿波の鳴門

(La cortigiana di Naruto della provincia di Awa)

Jidaimono 時代物 (dramma d’ambientazione storica), in dieci atti di Chikamatsu Hanji 近松半二 (1725-1783), Yatami Heishichi 八民平七 (attivo fra il 1764 e il 1781), Terada Hyōzō 寺田兵蔵 (date sconosciute, attivo fra il 1768 e il 1773), Takeda Bunkichi 竹田文吉 (date sconosciute), Takemoto Saburobei 竹本三郎兵衛 (attivo fra il 1759 e il 1780).

Prima rappresentazione: 1768. Takemotoza 竹本座, Ōsaka.

Attualmente viene rappresentato solo l’ottavo atto: Junreiuta no Dan 順礼歌の段 (Il canto della pellegrina), di cui si propone qui la sinossi.

SINOSSI DEL DRAMMA

L’ambientazione è Tamatsukuri, a Ōsaka, nella residenza di Jūrobei, un samurai al servizio del clan feudale Tamaki (modellato su quello degli Hachisuka, signori di Awa e Awaji). Egli ha ricevuto l’ordine di ritrovare un tesoro di famiglia, la celebre spada chiamata Kunitsugu. Jūrobei e la moglie Oyumi, dopo aver lasciato la natia Awa e abbandonato la figlioletta alle cure della nonna, vivono ora sotto falso nome a Ōsaka dove si sono stabiliti per dedicarsi alla ricerca della spada. Per sopravvivere durante l’annosa ricerca della spada, Jūrobei si è unito a una banda di fuorilegge e, con la moglie, vive di espedienti. Nella scena che precede immediatamente l’ottavo atto, un messaggero fa visita a Oyumi che è sola in casa. Porta una lettera di uno dei seguaci di Jūrobei i loro crimini sono stati scoperti e alcuni membri del gruppo sono stati catturati. Jūrobei e sua moglie dovrebbero fuggire il prima possibile per sottrarsi alla cattura.

Un giorno, mentre Oyumi è a casa da sola, si presenta alla sua porta una pellegrina che si muove nel Giappone occidentale alla ricerca dei suoi genitori. Rispondendo alle richieste di Oyumi la giovane dice di chiamarsi Otsuru e racconta di essere stata separata dai genitori, Oyumi e Jūrobei, all’età di tre anni.

Oyumi scopre così di avere davanti la propria figlia e si trova improvvisamente a dover affrontare un dilemma angoscioso: deve rivelare la sua vera identità e correre così il rischio di essere scoperta dalle autorità locali o deve rinnegare la propria figlia che non vede da tanti anni? Con il cuore pieno d’angoscia, di fronte alle insistenze di Otsuru che ha capito di aver finalmente trovato sua madre e vorrebbe restare nella casa, Oyumi rifiuta, le offre del denaro che la giovane non accetta e la allontana.

Incapace di separarsene, Oyumi richiama sua figlia per riabbracciarla un’ultima volta. Otsuru afferra l’estremità di una striscia di stoffa che Oyumi tiene in mano e cerca di attirare sua madre verso di sé in una scena altamente stilizzata che è una delle più famose del ningyō jōruri. Oyumi alla fine spinge Otsuru fuori di casa e poi si siede soffocando i singhiozzi accanto alla porta chiusa mentre Otsuru bussa dall’altra parte.

Ascoltando il canto straziante intonato dalla pellegrina mentre lascia la casa, Oyumi è però sopraffatta dall’emozione e decide di uscire per cercare di raggiungere la figlia che si è ormai allontanata.

La storia ha poi un epilogo drammatico rappresentato nell’atto seguente, Jūrobei uchi no dan (Nella casa di Jūrobei), rappresentato raramente.

Più tardi, quella stessa sera, Jūrobei incontra la pellegrina e, senza conoscerne la reale identità, decide di derubarla del suo denaro, la aggredisce e, senza volere, nel cercare di soffocarne le urla, la uccide. Quando Oyumi sopraggiunge, scopre con immenso dolore quello che è accaduto a sua figlia. Oyumi piange disperatamente e, per lo strazio, ha un mancamento.

Le autorità della polizia shogunale arrivano per le indagini e Jūrobei uccide anch’esse. Sconvolto dagli avvenimenti di quella sera Jūrobei dà fuoco alla sua casa con il corpo della figlia all’interno. Infine sia Jūrobei che Oyumi fuggono separati e non si incontreranno mai più.

Testa del burattino Osome, opera di Tenguhisa I. © The Trustees of the British Museum

NOTE


[1] Bunraku è il nome adottato per il teatro di figura solo nel 1805, quando un impresario chiamato Uemura Bunrakuken (1737-1810) costruì il primo teatro permanente e fondò una compagnia stabile, cui fecero seguito molte altre, soprattutto a Ōsaka, dove esiste ancor oggi il Teatro Nazionale dei Burattini. Gli studiosi delle arti performative folcloriche considerano più corretta per queste versioni la denominazione ningyō jōruri e a questa prassi mi attengo.

[2] Il 1942 è anche l’anno in cui la redazione di Chūōkōron è smantellata e ricostituita con personaggi vicini al regime che la rendono, almeno dal luglio 1943 in poi, una testata di propaganda nazionalista.

[3] In appendice la sinossi del dramma.

[4] Uno Chiyo, Ningyōshi Tenguya Kyūkichi 人形師天狗屋久吉, in Nihon bungaku zenshū 日本文学全集 49, Shūeisha 集英社, Tōkyō, 1979-1982, p. 142. [Testo utilizzato per la traduzione, d’ora in avanti abbreviato in NTK. La traduzione dei brani riportati è mia.]

[5] Secondo una diversa lettura dei kanji che compongono il suo nome.

[6] È proprio a Kume Sōshiki che si deve la curatela del Ningyōshi Tenguya Hisakichi Geidan 人形師天狗屋久吉芸談 (Discorsi sull’arte di Tenguya Hisakichi, Sōshisha Shuppan 創思社出版, 1979). In questo testo Kume fa riferimento al libro degli ordini di Tenguhisa, Tenguhisa no chūmon jō 天狗久の注文帖 (1890 circa), come all’unico documento storico che permetta di ricostruire la storia più recente del jōruri della regione di Awa. Stando a quanto racconta Tenguya nel Geidan, nell’epoca di massima fioritura del ningyō jōruri, attorno alla fine del XIX secolo, a Awa esistevano settantaquattro teatri di cui nel testo sono elencati i nomi, la collocazione e l’identità dei rappresentanti. Dei teatri dei burattini di Awa viene detto che non vi venivano eseguite opere per intero e che si trattava principalmente di teatri amatoriali. Occasionalmente, però, esperti di Awaji arrivavano per esibirsi nei teatri di burattini intorno a Ikeda, Hiruma e Kamo. Inoltre viene riportato che all’epoca la maggior parte dei musicisti di shamisen (o shamisenbiki) proveniva da Awaji e che erano eccellenti. Di Awa, per contro, era la maggior parte dei tayū.

[7] D. Keene, Dawn to the West, Columbia University Press, New York, 1998, p. 937.

[8] Ivi, p. 1134.

[9] Ivi, p. 1129.

[10] Sull’uso dell’Awa ben in NTK si veda Rebecca Louise Copeland, Uno Chiyo: The Woman and the Writer, Columbia University, Ph.D. 1986, pp. 132-133.

[11] “I burattini, semplici pezzi di legno con una testa appena sbozzata e che servivano come un medium per evocare gli dei, sono diventati i grandi pupazzi del bunraku.”, Jacques Pimpaneau, Fantômes manipulés. Le théâtre de poupées au Japon, Centre de publication Asie orientale, Paris, 1978, p. 15.

[12] Si noti come si sia in presenza, qui, del raro caso di un burattino che indossa una maschera, abituale attributo, nel teatro giapponese, di attori o danzatori.

[13] Lo hakomawashi è ancora riproposto da una associazione di Tokushima, l’Awadekobakomawashi hozonkai 阿波木偶箱まわし保存会, fondata nel 1995 con lo scopo di studiare e rivalorizzare questa tradizione locale. A Capodanno, ad esempio, i burattinai dell’associazione si recano davanti alle case con Ebisu e Sanbasō per augurare la buona fortuna per il nuovo anno secondo l’antica pratica del kadozuke 門付け.

[14] Svariate sono le piante da cui si ottiene l’indaco, ma in Giappone la più diffusa è la tadeai. Si trova non solo a Shikoku ma anche a Hokkaidō, Honshū e nel Kyūshū.

[15] Per un’analisi dettagliata della pratica del kadozuke si veda J.M. Law, “Kadozuke: The Outsider at the Gates”, in Puppets of Nostalgia: the Life, Death and Rebirth of the Japanese Awaji Ningyō Tradition, Princeton University Press, Princeton, 1997, pp. 49-88.

[16] Il burattinaio principale, l’omozukai 主遣い, muove il kashira del burattino e regge l’impugnatura che ne comanda i meccanismi interni con la mano sinistra mentre con la destra aziona il braccio destro del ningyō; il secondo, lo hidarizukai 左遣い, ne manovra il braccio sinistro con il proprio braccio destro, infine l’ashizukai 足遣い ha il compito di muovere le gambe e i piedi del burattino; inoltre utilizza i propri piedi per creare effetti sonori e per sottolineare il ritmo dello shamisen. I burattini dei personaggi femminili non hanno gambe e il loro movimento è reso abilmente dal movimento impresso all’orlo del loro costume.

[17] Letteralmente il titolo andrebbe tradotto con “Insetti che prediligono l’indaco”, con riferimento al fatto che, visto che l’indaco tiene lontani gli insetti, se alcuni di loro lo mangiano allora si può davvero affermare che ognuno ha i suoi gusti.

[18] Tanizaki Jun’ichirō, Gli insetti preferiscono le ortiche, traduzione di Mario Teti (1960), Milano, Mondadori, 1974, p. 143.

[19] Ivi, p. 142.

[20] Alte cm 18 rispetto ai circa cm 11 che caratterizzavano le teste nel jōruri antico e nell’attuale bunraku “classico”.

[21] Ben 88 teatri furono costruiti fra il periodo Edo (1868-1912) e il periodo Taishō (1912-1926) nella sola area di Tokushima, il numero più alto dell’intero Giappone. Questi teatri erano caratterizzati dal solo palcoscenico coperto mentre l’area destinata al pubblico era priva di copertura.

[22] Il gofun è una pasta biancastra ottenuta dalla pestatura di conchiglie e utilizzata dai pittori sia come strato di base che come pittura bianca, se mescolata a un legante. Può anche essere usato miscelato a altri colori.

[23] Quando cioè i lavoratori agricoli erano costretti a un riposo forzato.

[24] Rosseggiante, ossia demoniaca.

[25] Tanizaki Jun’ichirō, Gli insetti preferiscono le ortiche, cit., pp. 153-154.

[26] Letteralmente “cose che si mostrano”: si trattava di personaggi e spettacoli da baraccone presentati spesso all’aria aperta o sotto a tendoni.

[27] I costumi del mengeki sono costituiti solo dalla parte anteriore e dalle maniche, e sono realizzati appositamente per essere “appesi” con filo metallico sulle spalle. Si indossano e si tolgono facilmente e sono progettati per cambi rapidi (hayagawari 早変わりossia, letteralmente, “cambio veloce”).

[28] J.M. Law, Puppets of Nostalgia: the Life, Death and Rebirth of the Japanese Awaji Ningyō Tradition, Princeton University Press, 1997, p. 47.

[29] J.M. Law, “A heady heritage: kashira puppet heads. The shifting biography of kashira (puppet heads) as cultural heritage objects in the Awaji tradition”, in Christoph Brumann, Rupert Cox (eds.), Making Japanese Heritage, New York, Routledge, 2010, p. 115.

[30] Oga Tokio, Bunraku, Hoikusha Publishing Co., Ōsaka, 1984, p. 106.

[31] Uno Chiyo, NTK, p. 142.

[32]Ibidem.

[33] Gli hyōshigi sono uno strumento musicale costituito da due blocchi in legno a sezione quadrata che sono battuti insieme all’inizio di uno spettacolo per attirare l’attenzione del pubblico e durante lo spettacolo per sottolinearne momenti salienti.

[34] Uno Chiyo, NTK, pp. 143-144.

[35] Uno Chiyo, NTK, p. 144.

[36] Nel suo racconto Tenguhisa, per riferirsi al proprio maestro, non utilizza mai il termine sensei 先生 bensì quello di oyakata 親方.

[37] Uno Chiyo, NTK, p. 146.

[38] Ibidem.

[39] Ibidem.

[40] Personaggio di Kanadehon Chūshingura 仮名手本忠臣蔵 (Il magazzino dei vassalli fedeli), dramma in 11 atti di di Takeda Izumo II 二代竹田出雲 (1691-1756), Miyoshi Shōraku 三好松洛 (1696-?1775) e Namiki Senryū (Sōsuke) 並木千柳 (1695-1751), il più rilevante fra quelli ispirati al tema della vendetta dei quarantasette rōnin 浪人 ossia dei vassalli fedeli di Akō赤穂, avvenuta il 14 dicembre 1702.

[41] Capovassallo del daimyō 大名 Hangan, è il vero protagonista del dramma Kanadehon Chūshingura (Il magazzino dei vassalli fedeli).

[42] Uno Chiyo, NTK, p. 148.

[43] Ibidem.

[44] I sōmen sono tagliolini sottili che in genere si mangiano d’estate, freddi.

[45] Uno Chiyo, NTK, p. 149.

[46] Uno Chiyo, NTK, p. 149.

[47] Uno Chiyo, NTK, p. 150.

[48] Al momento in cui lo intervista Uno Chiyo, Tenguhisa ha 86 anni secondo il computo tradizionale dell’età che teneva conto dei mesi di gestazione attribuendo al neonato, alla nascita, già un anno.

[49] Uno Chiyo, NTK, p. 150.

[50] Uno Chiyo, NTK, p. 153.

[51] Il tengu 天狗 è una creatura fantastica della tradizione giapponese. Si crede che abbia un corpo umano, il becco di un uccello e delle ali che gli permettono di volare. A volte è raffigurato con un lungo naso rosso d’aspetto fallico. Con questo attributo viene rappresentato in forma di maschera teatrale come quella che campeggia ancora sull’ingresso della casa-museo di Tenguya.

[52] “Il numero 1 al mondo”, cfr. Uno Chiyo, NTK, p. 153.

[53] Ibidem.

[54] Ibidem.

[55] Uno Chiyo non utilizza mai i kanji per questi nomi.

[56] Viene usato il termine geidan 芸談, traducibile anche con “maestria”. Cfr Uno Chiyo, NTK, p. 153.

[57] Si riferisce ai villaggi di Hirumamachi 昼間町, Ikeda 池田, Kamomura かも村 e Nakanoshō 中野庄.

[58] In realtà Uno Chiyo utilizza qui un kanji iniziale diverso che sta per “vigoroso” al posto di “vivente”: 浩人形.

[59]Per nuovo teatro riformato si intende qui il movimento di riforma del teatro giapponese, e in particolare del kabuki, l’Engekikairyōundō 演劇改良運動 (Movimento per la Riforma del Teatro), fondato al Tōkyō nel 1886 con lo scopo di riformare la scena del kabuki adattandola alle esigenze e ai gusti della società moderna, attraverso una serie di misure fra cui l’abolizione del ruolo dell’onnagata, allo scopo di favorire il ritorno delle donne sul palcoscenico, e l’abolizione dello hanamichi poiché il movimentososteneva che lo “svecchiamento” del kabuki dovesse partire anche da una nuova concezione dello spazio interno dei teatri.

[60] Lo shinpa 新派 era un nuovo stile teatrale nato a metà dell’era Meiji (forse nel 1888) nel quadro del teatro impegnato ispirato dal Movimento per i diritti civili e poi riorientatosi verso il melodramma popolare.

[61] Nel testo chiamato kodōshashin 沽動写真, ossia “immagini in movimento”.

[62] “Anche se non era redditizio, mi ero ripromesso che finché avessi avuto un lavoro, piovesse o brillasse il sole, non avrei avuto problemi”. Uno Chiyo, NTK, p. 158.

[63] Nel caso di Tenguhisa che aveva avuto tre figlie, l’erede designato era un genero adottato, Kaname, che era morto prematuramente.

[64] “A farla semplice, sento che mentre intaglio i burattini, sto pregando i kami”. Uno Chiyo, NTK, p. 159.

[65] Kumagai Jirō Naozane 熊谷次郎直実, personaggio del dramma Ichinotani Futaba Gunki 一谷嫩軍記, opera in 5 atti di Namiki Senryū 並木千柳 (Sōsuke 1695-1751) e altri, rappresentato per la prima volta al Toyotakeza 豊竹坐di Ōsaka nel 1751. Il dramma si ispira a un celebre episodio della guerra Genpei 源平 tra i clan Taira 平ら e i Minamoto 源 (1180-1185) reso celebre dallo Heike monogatari 平家物語, capolavoro dell’epica guerresca.

[66] Taira no Atsumori 平敦盛.

[67] Il documentario, dal titolo Awa no deku 阿波の木偶, girato nel 1941, costituisce una preziosa testimonianza visiva del maestro ripreso mentre lavora, a due anni dalla sua morte. Vi si può osservare Tenguhisa mentre sbozza da un blocco di legno la testa del personaggio di Kumagai, ne crea i meccanismi interni e la dipinge con strati di gofun. Infine si vede il maestro mentre risponde a una breve intervista.

[68] Uno Chiyo, NTK, p. 161.

[69] Ibidem.

[70] Uno Chiyo, NTK, p. 165.

[71] Ibidem.

[72] Si tratta del celebre gidayūbushi 義太夫節 (cantore di jōruri) Toyotake Yamashiro no Shōjō 豊竹山城少掾 (1878-1967).

[73] Uno Chiyo, NTK, p. 167.

[74] Movimento millenaristico della fine del periodo Tokugawa. Manifestatosi con un’esplosione giocosa di danze per le strade, quello che era in realtà un movimento di rivolta si protrasse dall’estate 1867 al gennaio 1868.

[75] Avvenuta il 27 gennaio 1868, aveva visto la definitiva sconfitta delle truppe shogunali (e della resistenza del vecchio regime) per opera dell’esercito imperiale Meiji.

[76] Uno Chiyo, NTK, p. 169.

[77] Uno Chiyo, NTK, p. 170.

[78] Ibidem.

[79] Mi sembra qui efficace l’osservazione di Barbara Thornbury a proposito dei lavori di Tanizaki e Uno sul ningyō jōruri di Awaji e Tokushima: “Not only did they record experiences that are already increasingly difficult if not already impossibile to relive today, but as in the case of Basho their writing is infused with a subjectivity – a yearning for the past, an admiration for what survives in the present, and an uncertainty about what the future may hold – that adds a valuable perspective to objective scholarship on the performing arts.”, B. Thornbury, “Kagura, Chaban and the Awaji Puppet Theatre: A Literary View of Japan’s Performing Arts”, in Theatre Survey, Volume 35 – Issue 1 – May 1994, p. 56.

[80] Dal già citato dramma Ichinotani Futaba Gunki.

[81] Uno Chiyo, NTK, p. 171.

[82] Uno Chiyo utilizza qui il termine kisha 汽車 che fa riferimento a un treno che corre su rotaie con vagoni passeggeri e vagoni merci trainati da una locomotiva a vapore.

[83] Uno Chiyo, NTK, p. 171.

[84] Ibidem.

[85] Uno Chiyo, Nikkishō 日記抄, in Uno Chiyo Zenshū 宇野千代全集, vol. 11, Chūōkōronsha 中央公論社, Tōkyō, 1977, pp. 9-10.

[86] Donald Keene, Dawn to the West, cit., p. 1134.

[87] Nel 2002, gli strumenti e i prodotti per la creazione di burattini utilizzati dalla terza generazione di Tenguhisa sono stati designati come importanti beni culturali popolari tangibili e anche questi materiali sono esposti nel museo.